Cambiamento ai tempi delle “policrisi”. Pagnoncelli: tempo d’incertezza, ma ognuno ha la responsabilità di costruire il futuro

L’inizio dell’anno è il momento in cui si tracciano bilanci e progetti, si mettono in campo inquietudini, paure, desideri e sogni. Negli ultimi anni fare previsioni è diventato complicato, perché le trasformazioni sono rapide, spesso inaspettate, hanno assunto la forma di una “policrisi”, come spiega Nando Pagnoncelli, presidente Ipsos, docente, saggista e sondaggista.

Quali tracce di cambiamento possiamo individuare nella situazione attuale?

“Il concetto di cambiamento è ambivalente. Quello reclamato, richiesto dai cittadini ha a che fare con una insoddisfazione per la situazione attuale. Da un lato parlare di cambiamento suscita in genere un’aspettativa molto positiva perché legato al concetto di miglioramento. Molto spesso però, soprattutto negli ultimi anni, abbiamo a che fare con un cambiamento che non è spinto dall’individuo ma risiede nella natura delle cose. Si parla spesso di transizione, che da un lato è collegata a un concetto positivo di miglioramento e dall’altra all’ansia, all’inquietudine diffusa. Se non si vede l’approdo e non si capisce qual è il processo che porta al cambiamento inevitabilmente si generano comportamenti di ripiegamento difensivo.

Quando le persone reclamano un cambiamento esprimono la speranza di un miglioramento soprattutto individuale, perché da tempo si è acuito quello che il Papa chiama “lo scisma tra l’io e il noi”, tra il benessere del singolo e quello collettivo. 

Abbiamo perso la grande occasione del covid durante il quale abbiamo vissuto un clima di grande concordia e coesione, perché il nostro è un Paese che nei momenti di emergenza dà il meglio di sé ma poi, quando torna alla normalità, inevitabilmente torna ai mali comuni e ai difetti tipici”.

Quali sono attualmente le preoccupazioni più diffuse?

“Si è usato il termine policrisi a partire dalla pandemia che si è sommata alle emergenze successive. Nel 2020 con il covid ci siamo sentiti vulnerabili. Terminata quell’emergenza siamo entrati in altre. Per esempio il conflitto tra Russia e Ucraina ha riportato alla ribalta il tema energetico, e ad esso si sono sommate una complessa situazione economica con il ritorno dell’inflazione dopo trent’anni e lo scoppio del conflitto Israele-Hamas.

Questa situazione acuisce i livelli di preoccupazione delle persone. E se da un lato le policrisi hanno amplificato l’inquietudine e l’ansia per il futuro, dall’altro hanno anche contribuito a modificare in modo significativo le priorità dei cittadini.

Le persone, per esempio, hanno investito e stanno investendo molto di più sulla vita privata. Questo emerge con chiarezza dalle tante ricerche che facciamo nel mondo del lavoro. L’equilibrio tra vita personale e lavorativa è diventato la priorità numero uno”.

In questo contesto complessivo di preoccupazione e incertezza sul futuro qual è il tratto prevalente del clima sociale?

“Non è la rabbia, non sono i conflitti sociali ma una sorta di sfinimento emotivo e di stanchezza diffusa. Le persone sono stufe di questa situazione negativa che non finisce mai. A ogni crisi ne subentra un’altra, e spesso coesistono. Il covid non è stato debellato anche se ci preoccupa meno. Comunque resta una percentuale non piccola di persone che lo temono, intorno al 16%, composta da individui che magari hanno altre patologie e potrebbero subirne effetti peggiori.

Si è mitigato l’impatto del costo dell’energia rispetto alla prima fase del conflitto in Ucraina, ma questo è pur sempre un tema che ha messo a nudo la nostra vulnerabilità, perché siamo dipendenti da altri Paesi dal punto di vista dell’approvvigionamento energetico. E restano pesanti gli effetti dell’inflazione con l’erosione del potere d’acquisto, i salari fermi. Se una persona mette insieme tutto questo ha una rappresentazione del tempo presente fortemente improntata alla preoccupazione e al pessimismo.

Quando chiediamo quali sono le previsioni sulla situazione economica nei prossimi 6 mesi i pareri prevalenti sono pessimisti. Nel 2021, un anno davvero aureo dal punto di vista del clima sociale, era l’opposto: prevalevano gli ottimisti. In quell’anno abbiamo completato un primo ciclo vaccinale importante, siamo tornati alla normalità, in Italia il Pil è cresciuto del 6,7%, avevamo un governo di (quasi) unità nazionale guidato da una personalità autorevole, il prestigio del nostro Paese a livello internazionale è cresciuto, ci sono state le vittorie sportive, gli Europei, le medaglie alle Olimpiadi. Ci siamo lasciati alle spalle questo anno d’oro con l’inizio del 2022 e nel 2023, poi, è peggiorata ulteriormente la situazione economica, nonostante l’inflazione si sia ultimamente ripiegata”.

Da dove nasce questo clima di maggiore pessimismo a livello economico?

“Nel 2022 gli italiani potevano ancora contare sui risparmi accumulati nel 2020 e 2021. Oltre 170 miliardi di euro di risparmi privati in più nel biennio, e quindi, proprio perché le priorità sono cambiate, non hanno rinunciato alle vacanze, ai pranzi al ristorante e ad altri intrattenimenti come elemento di gratificazione, e li hanno potuti mantenere proprio grazie a questi risparmi.

Nel 2023 non è più stato così, è stato quindi un anno difficile. Questa serie di crisi, per di più, ha messo in discussione le previsioni basate su evoluzioni lineari. Dobbiamo essere pronti a governare l’incertezza, nel clima economico e sociale. 

Le prospettive secondo gli italiani: Il 35% si aspetta un peggioramento a fronte di un 23% che spera in un miglioramento, un 31% secondo il quale non cambierà nulla, l’11 per cento non è in grado di rispondere.

Rispetto alla situazione personale e della famiglia le proporzioni sono simili: un 29% di pessimisti, un 24% di ottimisti e secondo il 36% non cambierà nulla, mentre l’11 per cento non sa proprio che futuro lo aspetta”.

Gli italiani si sono rassegnati al peggio?

“Non è un clima di rassegnazione ma di malinconia, che come dicevamo domina sulla rabbia. Sui temi economici non ci sono state manifestazioni importanti e neppure scioperi generali. Noi reagiamo in modo diverso da questo punto di vista rispetto ad altri Paesi europei, anche in questi ambiti.

Diminuisce la partecipazione sociale perché non è più vista come elemento che possa rimettere in moto l’ascensore sociale. Sotto questo aspetto c’è una diffusa rassegnazione. Se il 69% dei ragazzi tra 18 e 35 anni vive ancora nella famiglia d’origine, non abbiamo assistito negli ultimi anni a manifestazioni importanti da parte dei giovani per conquistare un avvio dell’autonomia. Per fortuna in generale hanno la possibilità di rimanere nella famiglia d’origine, che mette in atto una specie di welfare privato. Ma questo alla fine acuisce e accentua il ripiegamento su di sé e l’atteggiamento di difesa rispetto alle minacce che arrivano dall’esterno, economiche ma non solo.

Il rischio è che si accentui ulteriormente il divario tra dimensione individuale e appartenenza collettiva, che negli ultimi anni è cresciuto molto con l’eccezione della parentesi dell’emergenza covid”. 

Qual è la situazione dal punto di vista della partecipazione politica?

“Dobbiamo sempre riflettere su alcuni elementi che caratterizzano l’Italia rispetto ad altri Paesi. Se consideriamo gli ultimi 4 appuntamenti elettorali, a partire dalle europee del 2014, ci rendiamo conto che il nostro è un Paese in cui le sorti dei partiti cambiano rapidamente. Nel 2014 ha vinto il Pd guidato da Matteo Renzi, ottenendo 11 milioni e 200 mila voti, quattro anni dopo alle elezioni politiche il Partito democratico è sceso a 6 milioni 200 mila voti. Nel 2018 ha trionfato il Movimento Cinque Stelle, con 10 milioni e 700 mila voti, ma 15 mesi dopo, con le europee del 2019 è sceso a 4 milioni e 300 mila voti. In quell’occasione ha trionfato la Lega di Salvini, con 9 milioni e 150 mila voti. Alle successive elezioni nel settembre 2022, però, questo partito non è arrivato a 2,5 milioni di voti. Ha vinto, invece, Fratelli d’Italia con 7 milioni e 300 mila voti.

Gli elettori passano dall’uno all’altro rapidamente e il motivo prevalente del voto è legato a istanze individuali. Ci si innamora del leader di turno, dandogli fiducia, salvo poi essere delusi, girare le spalle e passare ad altro. Abbiamo abitudini di voto che definirei “usa e getta”. Di fronte a questo non possiamo dire che gli elettori non vedano l’ora di andare a votare, piuttosto assistiamo a una disillusione molto ampia, una volatilità del voto estremamente ampia e un’astensione in crescita, che però non nasce solo da un disgusto della politica”.

Cosa intende?

“Ci sono, sicuramente, aspetti importanti del cambiamento antropologico del nostro Paese legati al fatto che la politica non è il carattere identitaria prevalente, ma solo un frammento di identità, che convive con altri e non è nemmeno il più importante. Ci sono persone che non sanno neppure quando si svolgono le elezioni. La dimensione della politica è distante per molti. C’è poi anche la componente del rifiuto e della disattenzione alla politica. Quando indaga su chi si è astenuto i picchi più elevati si ritrovano sicuramente tra i giovani e poi nei ceti in maggiore difficoltà economica, perché non ritengono che politica e istituzioni prestino attenzione alla loro condizione e non sono quindi particolarmente motivati ad andare a votare.

C’è poi un astensionismo intermittente di persone che non vanno a votare perché pensano che la loro parte politica sia destinata alla sconfitta, magari poi tornano la volta successiva se i pronostici migliorano. Bisogna tener conto anche degli impedimenti pratici: alle ultime elezioni 2 milioni e 800 mila persone con più di 65 anni e gravi difficoltà motorie non si sono recati a voltare. Altri 4 milioni e 900 mila elettori si trovavano nei giorni delle consultazioni a più di 240 chilometri di distanza dal proprio comune di residenza. Questi numeri escono dal libro bianco fatto dal professor Bassanini che ha presieduto la Commissione istituita dal governo Draghi per contenere il fenomeno dell’astensionismo involontario. Prima di dire che ci sono 17 milioni di persone disgustate dalla politica forse un po’ più di discernimento non farebbe male. Queste informazioni possono costituire una base per capire come riattivare l’interesse per la politica.

Ovviamente non è facile recuperare chi è disgustato, ma ci sono tante proposte per contenere l’astensionismo involontario, come per esempio il voto a distanza o quello elettronico. E ancora possibilità di accompagnamento di persone con oltre 65 anni e difficoltà motorie, riduzione delle barriere architettoniche: sono tutti modi per favorire la partecipazione di chi è in difficoltà. Il cambiamento ci vorrebbe anche da questo punto di vista”. 

Nel 2021 la coesione sociale ha dato frutti positivi, ma passata l’emergenza la tendenza individualistica è tornata a prevalere.

“Ci sono stati momenti storici in cui si è dimostrato che concordia e coesione hanno aiutato il nostro Paese a fare grandi passi in avanti, come per esempio nel Dopoguerra. Siamo usciti dal terrorismo attraverso la coesione, e così è avvenuto anche in occasione di gravi calamità naturali. Basta studiare un po’ la storia e riflettere su questi aspetti per capire come un po’ più di coesione dovrebbe aiutarci, mentre la tentazione è sempre quella di seguire le istanze individuali.

Non è uno sguardo particolarmente positivo rispetto al futuro, ma richiama tutti all’impegno, ognuno nel proprio ruolo. In un’ottica di cambiamento chi guida il Paese – non solo il governo ma le istituzioni in generale – ha maggiori responsabilità, ma ugualmente ne hanno i corpi intermedi come i mondi associativi e il mondo delle imprese. Anche i singoli cittadini, però, devono essere consapevoli delle proprie responsabilità. I processi di cambiamento non sono inerziali ma prevedono – se non un patto sociale – una maggiore consapevolezza dell’esigenza di mantenere in equilibrio le legittime aspettative individuali con il benessere collettivo”.

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