Cambiamento in tempo di transizione. Ivo Lizzola: “Costruire il futuro nelle comunità, facendolo germogliare nel presente”

Il cambiamento può avere diversi ritmi, tempi e respiri. Osservando con sguardo attento lo si può trovare anche nell’opera quotidiana delle comunità, impegnate in modi diversi a farlo germogliare nel presente, nel lavoro quotidiano, nelle realtà che si occupano di fragilità e di cura. Lo racconta Ivo Lizzola, docente di Pedagogia sociale e di Pedagogia della marginalità, del conflitto e della mediazione presso il Dipartimento di Scienze Umane e Sociali dell’Università di Bergamo. “Il cambiamento – spiega – è aiutarsi reciprocamente a tenere aperta l’attesa, a non vedere quello che stiamo vivendo come tutto predestinato, chiuso, vincente o perdente. La questione centrale è quella del senso, della bellezza, della giustizia”.

Non è facile decifrare modi, strategie e direzioni: “Siamo talmente immersi nel cambiamento – sottolinea Lizzola – che poco lo avvertiamo. Ci preoccupiamo prevalentemente di una manutenzione un po’ difensiva di quella che pensiamo sia la realtà da proteggere, senza renderci conto che essa nel frattempo sta già evolvendo, aprendo nuove responsabilità ma anche nuove possibilità”. 

Senza poter vedere, immaginare, prefigurare prospettive precise, accade che ci siano atteggiamenti di resistenza e irrigidimento di fronte a un mutamento. Per descrivere la situazione attuale Ivo Lizzola usa l’immagine del viaggio, anzi, dell’esodo, che si ritrova anche nel titolo del suo ultimo libro “In tempo d’esodo”: “Siamo in una transizione, iniziata da almeno vent’anni. In questo periodo senza accorgerci stiamo già attraversando dei passaggi che ci conducono oltre le stabilità e le sicurezze del passato, oggi non più attuali. Abbiamo lasciato alle spalle alcune certezze del diritto internazionale, del rapporto tra politica ed economia e fra le culture, che ora sono tutte rimescolate. È in atto un mutamento profondo, che tocca l’interiorità e le vite quotidiane delle persone”.

Ci sono tanti segni, anche a livello sociale: “Non c’è più la stabilità del lavoro, le relazioni sono spesso segnate dalla discontinuità, il mondo sta cercando vie nuove per gestire trame di vicinanza molto forte, la potenza inedita dei gesti e delle tecnologie. La tecnologia rischia fra l’altro di diventare linguaggio e modo di costruire significati, mentre andrebbe considerata solo come un grande strumento, che per funzionare ha bisogno di una cultura e di un’etica. Ci troviamo dentro questo grande passaggio quasi senza accorgercene e senza assumercene il carico. Dobbiamo affrontare sfide e responsabilità più alte rispetto al futuro del pianeta e ai grandi temi delle diseguaglianze, ma l’unico leader mondiale consapevole di questo è Papa Francesco e lo dicono benissimo la “Laudato si’” e la “Fratelli tutti”, dove si trova un pensiero all’altezza del tempo, delle trasformazioni in atto e di un umano che deve tornare a cercare se stesso”.

È sempre presente la tentazione di ritrovare certezze ancorandosi al passato: “Certamente questo porta molti a vivere struggenti nostalgie. Esse possono essere positive, se si traducono nella ricerca delle potenzialità buone conservate nelle memorie e nelle testimonianze. Possono essere negative, invece, se sono nostalgie struggenti di ritorno alla stabilità di una volta perché non permettono di vedere il nuovo, non aprono orizzonti, non aiutano ad osare”. 

C’è una grande tentazione che torna ciclicamente nelle diverse epoche, e la descrive bene Erich Fromm, psicologo e filosofo tedesco, nel saggio “Fuga dalla libertà”. Secondo Fromm, che scrive negli anni Trenta, molti, di fronte alle responsabilità che accompagnano il godimento della libertà, preferiscono fuggire verso nuove frontiere di totalitarismo, o si rifugiano nel conformismo della società di massa. Una dinamica simile, spiega Lizzola, si verifica anche ai giorni nostri: “Il cambiamento a volte non viene colto e in altri casi non viene accettato perché impaurisce, e di fronte ad esso torna la tentazione della fuga dalla libertà, mentre ci sarebbe necessità di un esercizio di libertà e di un gusto di libertà che però hanno bisogno di essere ben orientati”.

Come si può evitare questo rischio? “Comprendendo, per esempio, che la libertà è relazione, che la costruzione di sé ha a che fare con il leggersi continuamente in relazione al mondo e agli altri. Possiamo essere capaci di libertà se penseremo ai figli e ai nipoti. Alla libertà che hanno ottenuto i genitori e i nonni, che hanno portato avanti gesti e scelte come lasciti nei nostri confronti, per costruire la vita a venire, la nostra. Possiamo costruire un futuro migliore se coltiviamo questo forte senso di dedizione nel cambiamento, che certamente deve essere sostenuto da una comunità, aiutandosi gli uni gli altri, dentro progettualità tessute negli stili di vita, nelle accoglienze, nelle risorse, ma anche solo nell’abituarsi a sentire la vita degli altri dentro la propria e la propria vita come importante per la vita degli altri. Se diventiamo capaci di questo allora possiamo essere in grado di costruire futuro: ma dobbiamo farlo adesso, facendolo continuamente rigerminare nel presente”.

È un gesto delicato, come se piantassimo semi e li guardassimo crescere, come frutto di un lavoro comune, umile, quasi artigianale: “Questo è un tempo di cambiamento che passa e si costruisce per rigemmazioni. Non è possibile oggi agire per grandi progetti teleologici, perché nessuno è in grado di tenere sotto controllo tante variabili, e di avere un sapere previsionale che permetta di disegnare il cambiamento nel suo esito. Ci vogliono invece un pensiero umile e un posizionamento nella vita adeguato che permettano continuamente di leggere insieme ad altri, via via, quello che sta avvenendo, per direzionarlo secondo criteri di giustizia, di inclusione, di accoglienza, di rispetto. Dobbiamo essere in grado di costruire quel sapere artigianale e pratico nelle scuole, nelle comunità cristiane, nelle associazioni. In tutte le forme di convivenza che possono costruire pensiero insieme attraverso le decisione sull’uso delle proprie risorse, del tempo, delle competenze. Poi queste scelte implicano anche giudizi sui grandi meccanismi economici, sulle scelte politiche, sulle culture che contrastano e semplificano. Quanta semplificazione vediamo oggi nella riduzione tecnologica dei problemi, nella fuga dalle responsabilità relazionali che si ritrova per esempio in tante azioni di cura, negli ambienti sanitari e psichiatrici. E la ritroviamo nel gioco dei media che propongono ricette facili e polemiche contrappositive”. 

I ritmi veloci della comunicazione contemporanea spingono a posizioni nette: sì o no, dentro o fuori, giusto o ingiusto: “Bisognerebbe invece tener conto di un aspetto, di un altro, di un altro ancora. Misurare un gesto insieme a un altro, e un altro ancora, con pratiche e pensieri più complessi, concreti, umili, veri e rispettosi”. 

Ivo Lizzola, girando per l’Italia, conosce molte realtà del privato sociale, del mondo delle cooperative, delle associazioni, delle comunità d’accoglienza che lavorano soprattutto a partire dai luoghi dove la vita è incerta, fa fatica, ha bisogno di relazioni. “Continuo a incontrare situazioni – osserva – che coinvolgono migliaia e migliaia di persone che portano avanti percorsi e processi nei quali si dà avvio a storie di vita, condivisione, attenzioni, veglie reciproche. In queste esperienze continuo a vedere le rigemmazioni del cambiamento e della promessa. Una promessa concreta che ci si fa gli uni agli altri di non lasciarsi soli, di tornare a ripensarsi sulla sostenibilità di alcune condizioni di svantaggio psicologico o di fragilità economica e di precarietà, che non diventano facilmente solidità. Ma sette o otto precarietà messe insieme si assicurano vicendevolmente e provano a ricercare nuove forme di appoggio reciproco. Questo florilegio continuo è sorprendente”.

L’epoca della transizione in cui stiamo vivendo non permette di essere in assoluto ottimisti o pessimisti: “Stando dentro una realtà che sta nascendo, siamo soprattutto rispettosi di ciò che si vede e si conosce, attenti a ciò che nasce nel quotidiano, nel concreto dell’esperienza e non solo a ciò che si vede nelle medie statistiche. Bisogna saper guardare ciò che nasce ma anche ciò che rischia di morire. E le morti sono frequenti nelle aree della fragilità, nella migrazione, nel disagio psichico. Sono morti legate alla fatica di vivere”. La vita, aggiunge Lizzola, deve ancorarsi nelle relazioni per essere desiderabile, soprattutto in tempo d’esodo, altrimenti il timore di non farcela, di rassegnarsi, diventa troppo forte: “Le vite delle persone reggono perché si trovano dentro queste reti di prossimità fraterna, senza esigenze di grandi virtù personali. Sono persone normali, mediamente buone, mediamente cattive, un po’ intimorite ma anche generose che si legano, immaginano insieme e nella loro mancanza di innocenza ed esemplarità producono una vita che torna ad essere desiderabile. Così si blocca il pensiero che forse la vita non vale tutta la pena che chiede, diventa anzi sorprendente”.

La bellezza del cambiamento è quindi anche la sua dimensione collettiva, che trova un senso nel viverlo insieme: “Il cambiamento è aiutarci reciprocamente a tenere aperta l’attesa, a non vedere quello che stiamo vivendo come tutto predestinato, tutto chiuso, tutto vincente o perdente. La questione centrale è quella del senso, della bellezza, della giustizia. Possiamo resistere anche solo per il fatto che senza la nostra presenza un po’ responsabile e consapevole altri soffrirebbero. Questo può dare senso, gusto, può permettere di stare lì e di acquisire senso della propria dignità”. 

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