Astensionismo e futuro della democrazia. Verso una società senza politica?

I dati sull’astensionismo recente e su quello previsto in occasione delle prossime elezioni regionali, amministrative ed europee sono allarmanti: si viaggia ormai verso/oltre il 50% di astenuti. Si tratta di una tendenza che viene da lontano, a partire dal 1979, 45 anni fa.  Nelle elezioni della Camera, nel 1976 andò al voto il 93,4% degli aventi diritto; nel 2022 erano calati al 63,8%. Dal 2013 “il partito del non voto” è il primo “partito” d’Italia. Si intende che il vocabolo “partito” assume, in questo caso, un significato metaforico: “un partito dei senza partito” è un ossimoro.

Nel corso di quasi mezzo secolo le cause dell’astensionismo si sono venute modificando, in tre fasi. 

Nella prima crisi della partecipazione del giugno del 1979 si riversava la lunga disillusione degli elettori quale effetto del fallimento dell’operazione-governo di unità nazionale. Il decennio tumultuoso incominciato nel ’68, attraversato dal terrorismo e dallo stragismo di destra, non riuscì a trovare uno sbocco, nonostante il forte protagonismo culturale e politico del PSI, se non nel preambolo di Donat Cattin. Donde il riflusso della sinistra, in particolare del PCI, complice decisivo dello stallo anche il successivo arrocco “morale” di Enrico Berlinguer e il suo rifiuto ostinato di un approccio socialdemocratico unitario con i socialisti.  

Il decennio post-1989 prosegue nella caduta della partecipazione elettorale, salvo una piccola risalita nel 2001. Gli elettori hanno dato al sistema politico il tempo per cambiare. Ma il fallimento della Bicamerale evidenzia plasticamente l’incapacità dei partiti di fare Institution building e di riformarsi, cioè di garantire meccanismi democratici di elaborazione delle volontà politiche. Se il Mattarellum aveva riservato ai partiti il potere di designare, secondo un proprio ordine di preferenze, il 25% dei propri eletti, lasciando agli elettori la scelta del 75% dei seggi con il sistema maggioritario nei collegi uninominali, il Porcellum del 21 dicembre 2005, elaborato dal centro-destra, sottraeva agli elettori anche il 75%. Ci pensava il partito, cioè il suo leader con il suo cerchio magico o con il suo caminetto, a mettere in fila i candidati in ordine di eleggibilità. Votavi il partito e stop.

La terza fase dell’astensionismo incomincia nel 2009, con la comparsa sulla scena del M5S il 4 ottobre. Ma l’avvento del populismo è ben lungi dal fermare la deriva astensionista. Né pare che lo potrà fare l’ammuina in corso in questi giorni delle candidature-specchietto annunciate, minacciate, disdette. A che pro votare, se non è dato di scegliere il rappresentante effettivo, se i sondaggi funzionano come elezioni e le elezioni come semplici sondaggi?

La politica sta diventando inutile?

Non si può dire che la massiccia astensione degli elettori sia oggetto di preoccupazione del sistema dei partiti, salvo le lamentele di rito. Per loro contano le percentuali, non i valori assoluti. Aumentino o diminuiscano i votanti, nulla cambia rispetto al rapporto con le istituzioni rappresentative e di governo, sulle quali la presa è più che mai solida, al netto dell’instabilità strutturale dei governi, che danneggia più i cittadini che i partiti. 

La convinzione profonda dei gruppi dirigenti dei partiti è che la società non possa fare a meno della politica. E la politica la fanno i partiti. Ne hanno il monopolio, dettano le regole, offrono il prodotto, decidono il prezzo. D’altronde, tutto il ‘900 è attraversato dall’idea che la politica forgia il mondo, che la politica trasforma la Nazione in Stato, che la politica costituisce il popolo in comunità di destino. E i partiti sono la politica vivente, la politica in atto. Donde la “ὕβρις” dei partiti.

Per molte ragioni le cose non stanno più così. La politica ha perso forza messianica, la società pare avere sempre meno domanda della politica. Una delle ragioni è la complessificazione e la differenziazione funzionale crescente della società civile. Gli individui, i gruppi, le associazioni intermedie, i mondi vitali si sono impadroniti di quote crescenti di sapere/potere. Al punto da poter credere di affrontare da soli il rapporto con le istituzioni dello Stato. Lo slogan “uno vale uno” ha rivendicato il rapporto diretto con lo Stato, by-passando l’intermediazione dei partiti. E la somma di coloro che praticano il rapporto diretto non è più un partito, ma o movimenti a direzione carismatica o un leader al di sopra del loro stesso partito. 

Una seconda ragione è la porosità dei confini simbolici dello Stato-nazione, sotto la pressione delle forze economiche e finanziarie globali e della comunicazione digitale e del convitato di pietra dell’I.A. In questa seconda ragione, la debolezza della politica è effetto della debolezza simbolica della statualità. Il “terminus ad quem” della mediazione si è perso nelle nebbie della globalizzazione. Perciò a che serve il mediatore, se non conosce il porto verso cui dirigersi?

Una terza ragione è la perdita della conoscenza sociale da parte dei partiti. La rendita di posizione complessiva del sistema dei partiti rispetto alla società civile li ha assuefatti a leggere la società solo in termini di potere, non in termini di sapere. Sono diventati ostaggio del potere, hanno trascurato e perduto il “sapere”. Il potere è la materia incandescente più propria che la politica tratta ogni giorno. Nessuna concezione angelistica della politica e del potere, dunque. Ma se non è illuminato dal sapere, diviene o inutile o demoniaco. La gramsciana politica delle casematte è stata abbandonata dalla sinistra, mentre ai cattolici venivano meno la Chiesa, le parrocchie, le associazioni collaterali. È nella DC che è apparso più visibile questo processo di doroteizzazione, che Moro e De Mita avevano tentato di superare. La certezza del monopolio inscalfibile del potere ha addormentato la DC nel suo declino. La sinistra, a sua volta, è stata travolta dall’individualismo dei diritti e dal populismo anticomunitario. Così la sinistra ha perso “la classe” e “il popolo”, i quali hanno cercato un approdo a destra. Non ha più sentito il bisogno di un “cervello collettivo” e quindi più neppure di intellettuali, organici o disorganici, che fossero. E poiché DC-PCI hanno dato origine al PD, esso è diventato la somma di due povertà socio-culturali. E poiché l’egemonia non è stata erosa nel corso di una battaglia all’ultimo sangue con la destra, la cui consistenza culturale è tuttora gelatinosa, la condizione dell’intellettualità di sinistra, ormai staccata dalla politica, è quella della “Freischwebende Intelligenz” – l’intelligenza fluttuante” – di cui scrisse Karl Mannheim nel 1929. Nella visione del sociologo tedesco, la fluttuazione aveva un significato critico e liberante rispetto ai vincoli della tradizione. Ma qui, oggi, si tratta di frammenti di conoscenza sociale che fluttuano sospesi tra la società e la politica, senza riuscire a depositarsi da nessuna parte. 

La comunicazione e la realtà/verità

Della propria difficoltà a entrare in contatto con la società reale i partiti hanno teso in questi anni a dare la colpa all’arretratezza della comunicazione digitale. Solo che tale difficoltà non dipende affatto dalla povertà tecnologica dei canali di comunicazione, ma dalla miseria veritativa dei contenuti che vengono trasmessi. Ed è solo una pietosa fuga in avanti la teorizzazione della politica e del partito come risposta a sogni, a desideri, a emozioni, nell’illusione di catturare i giovani. Di nuovo: qual è il contenuto di realtà/verità dei sogni che si vogliono far sognare? 

Se la politica diviene inutile per gli elettori, il primo effetto è la corporativizzazione dei corpi sociali, degli interessi, delle lobby e l’aumento dei conflitti. Non potranno essere sedati alla lunga con la droga del debito pubblico. I primi a pagarne il prezzo sono infatti proprio i giovani, le donne, gli anziani. Coloro che si vogliono istupidire con l’Eden dei sogni e dei diritti.

E così la politica e i partiti scivolano inutili sulla superficie del Paese, “autogovernato” in modo disordinato e anarchico dai più forti. Una democrazia siffatta non ha il futuro garantito.

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