Il bambino di carta. I sogni dei piccoli e le aspettative dei grandi

La giornalista Marina Marazza ricostruisce il rapporto tra lo scrittore britannico Alan Alexander Milne (Kilburn, 18 gennaio 1882 – Hartfield, 31 gennaio 1956), noto soprattutto per la serie di libri per bambini con protagonista l’orsacchiotto Winnie the Pooh, e suo figlio Christopher Robin nel romanzo “Il bambino di carta. La vera storia di Christopher Robin e del suo Winnie the Pooh” (Solferino 2023, Postfazione di Alberto Pellai, pp. 320, euro 18,50).

Un romanzo attualissimo, ambientato nei primi anni del Novecento in cui l’autrice tratta temi contemporanei, quali il bullismo, la traumatizzazione legata all’esperienza della guerra, la fatica a rendere la famiglia un luogo che aiuta a crescere protetti, amati e sicuri. 

Alberto Pellai, medico, psicoterapeuta dell’età evolutiva e ricercatore presso il Dipartimento di Scienze Biomediche dell’Università degli Studi di Milano nella Postfazione sottolinea che il testo evidenzia “l’aspettativa con cui i genitori limitano il potenziale di vita di un figlio, chiedendogli di essere ciò che ci si aspetta che sia”. 

Abbiamo intervistato l’autrice, specializzata in tematiche di storia, società e costume, che collabora con diverse riviste tra cui “Io Donna”.

  • Nel romanzo descrive la personalità di Alan Alexander Milne che ha regalato ai bambini di tutto il mondo il sogno, ma che non è riuscito a rendere suo figlio un bambino felice. Ce ne vuole parlare?

«Alan è un personaggio complicato, come spesso gli uomini di talento. È un intellettuale a tutto tondo, un bravo scrittore, dotato di quel tipico senso dell’umorismo britannico, amicone dei grandi autori suoi contemporanei, come Conan Doyle, Kipling, Chesterton, Barrie, il fior fiore delle menti letterarie inglesi, insomma. Insieme si gioca a cricket e si frequentano club esclusivi per soli gentiluomini dove fumare il sigaro affondati in poltrone di pelle e leggere i giornali discutendo di politica e cultura. Ma è anche un uomo fragile, di una generazione terribilmente provata dalla guerra. La vita di trincea lo ha ferito nell’anima prima che nel corpo. Lo ha reso ancora meno capace di aprirsi, di comunicare. Stress post traumatico, lo chiamiamo adesso. Lui ci convive, come molti reduci. Fa il giornalista per il Punch, una prestigiosa rivista di satira, e ha un agente letterario, perché è un conosciuto scrittore di teatro e anche un giallista raffinato, quando arriva a scrivere di Winnie the Pooh. E ci arriva perché nel frattempo è diventato padre e vuole parlare di suo figlio e anche con suo figlio, nell’unico modo che gli riesce davvero bene, scrivendo. Il successo dell’orsetto gli scoppia in mano, lui pensava di fare una piccola cosa minore, quasi quasi il fatto di diventare celebre con una produzione per bambini ha finito per indispettirlo un tantino: si sentiva più un grande autore di teatro, per intenderci… e invece è diventato il celeberrimo creatore dell’orsetto di poco cervello».

  • La famiglia Milne rappresenta la tipica famiglia disfunzionale, dove i genitori sono adulti fragili e irrisolti e il loro figlio vittima di bullismo?

«Il grande psicopedagogista Pellai, che ha scritto una bellissima postfazione al mio romanzo, ha usato proprio queste definizioni. Né Alan né sua moglie Daff sono quelli che oggi definiremmo dei buoni genitori, e del resto in quell’epoca nelle famiglie del loro ceto i bambini erano affidati alle tate e incontravano papà e mamma all’ora del tè. Niente a che vedere con il rapporto fortemente affettivo e la presenza costante dei tempi nostri. Alan era provato dalla guerra, ambizioso ma timido, permaloso e insicuro, ancora alla ricerca dell’approvazione del proprio padre che avrebbe voluto per lui una carriera diversa; Daff è una donna fredda, molto egocentrica, una socialite poco adatta a fare la madre, che mette al mondo un figlio più che altro per dovere sociale, ma che non è davvero interessata a lui fino a che non riesce a trasformarlo in un piccolo fenomeno. Lei avrebbe voluto una bambina, in realtà, e costringe la tata a vestirlo di pizzi e a tenergli i capelli lunghi. Il bambino, da parte sua, si sente sempre impari e fuori posto e a un certo punto si ritrova a essere famoso quasi come i principini d’Inghilterra, ed è ovvio che questo fatto gli provocherà dei grossi ulteriori problemi nel rapporto con i suoi coetanei. Christopher Robin, che tutti in famiglia chiamano Billy, è un figlio unico solitario e mal amato, che ha ereditato la timidezza del padre. Il fatto di ritrovarsi protagonista dei libri di Winnie the Pooh gli rovinerà la vita».

  • Christopher Robin è come una baby star ante litteram?

«Esatto. Viene fotografato, intervistato, legge ad alta voce agli eventi brani scelti dei libri di papà, canta e registra le canzoncine di Winnie the Pooh, interpreta delle pièce tratte da episodi ambientati nel Bosco dei cento acri…  riceve centinaia di lettere, il postino deve riorganizzarsi i giri per poter far fronte alla valanga di corrispondenza destinata alla casa rossa di Chelsea, dove vivono i Milne. Una baby star sempre più disorientata e spaventata. Un bambino in carne e ossa, forse più ossa perché Billy è un ragazzino magrolino e inappetente, che viene trasformato in un bambino di carta, un’invenzione letteraria. Quasi un Pinocchio al contrario, un piccolo principe stralunato che cerca la sua identità».

  • Ha visto il biopic su Milne “Vi presento Christopher Robin” (Goodbye Christopher Robin 2017), diretto da Simon Curtis, protagonista Domhnall Gleeson?

«Sì, e lo sceneggiatore si è basato su fonti analoghe a quelle che ho usato io, per fortuna i Milne hanno scritto molto, anche dei diari, dei ricordi, sia il padre che il figlio, e molti episodi sono davvero significativi. Penso che per Christopher Robin la scrittura dei mémoir sia stata anche un modo per superare tutto quanto e arrivare a “perdonare” i genitori. Questo ha offerto molto materiale per ricostruire i fatti».

  • La lettura del romanzo è anche l’occasione per riflettere sui diritti dei bambini, sui loro bisogni di crescita, sulla responsabilità educativa dell’adulto?

«È proprio questa l’attualità della vicenda. A proposito di esposizione mediatica dei nostri figli, non so quanti abbiano la coscienza pulita: postiamo sui social le ecografie dei nostri rampolli quando li abbiamo ancora in pancia, il nostro narcisismo è smisurato e non ha riguardi nei confronti della privacy dei nostri bambini. Vogliamo far vedere quanto sono belli e bravi, come riflesso del nostro volerci mostrare genitori perfetti. Altro che scandalizzarci quando leggiamo che Alan chiedeva a suo figlio di esibirsi leggendo le storie di Winnie, come un piccolo enfant prodige… chi è senza peccato eccetera, non è vero? E il bullismo feroce delle scuole inglesi forse ha cambiato forma, forse non ti prendono più con la forza per metterti sotto la doccia vestito, ma te ne fanno anche di peggio, magari online, fino all’istigazione al suicidio. Quindi… ».

  • Alla fine del romanzo, ci si rende conto come nella serie di romanzi per ragazzi ideata da Alan Alexander Milne realtà e fantasia si mescolano. Che cosa ne pensa?

«Il Bosco dei cento acri non esiste, ma esiste la foresta di Ashdown, che si estende dietro la casa di campagna dei Milne a Cotchford. Winnie è un pupazzo di lana, era davvero l’orso preferito del piccolo Christopher Robin, ed esistono anche altri pupazzi, come il maialino Piglet e l’asino Eeyore. Chiaramente l’autore ha trasfigurato la realtà e l’ha resa poetica, creando situazioni universali. Le interpretazioni possono essere tante, a partire dal fatto che dentro quel bosco il massimo della cattiveria era impersonata da un efelante buffo, e quindi si creava un universo rassicurante per chi aveva visto in trincea uomini senza testa, decapitati dalle schegge di shrapnel. Poi c’è chi ha pensato che ciascun personaggio di quell’universo rappresentasse una caratteristica specifica dei più piccoli, la timidezza di Piglet, la malinconia di Eeyore, la vitalità di Tiger…  Alan Milne ha saputo raccontare un mondo fiabesco che è piaciuto tantissimo ai suoi contemporanei e ha continuato ad avere successo, soprattutto nella sua popolare versione Disney, meno raffinata ma modernizzata, resa più adatta a un vasto pubblico e trasformata in merchandising d’assalto. La storia di Alan Milne dimostra che essere una persona di talento non ti rende automaticamente anche un buon genitore. E del resto chi di noi è certo di esserlo o di esserlo stato? Io personalmente ho dedicato questo libro a mia figlia, che ormai è una donna adulta. Le ho scritto che adesso che è grande (e che da brava psicologa ormai sa come quello del genitore sia un mestiere impossibile, come diceva il buon Freud), spero che mi perdonerà tutti gli errori che ho fatto. L’unica cosa che da noi non è mai mancata è l’amore, proprio quell’ingrediente che in casa Milne brillava per la sua assenza».

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