Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani. Il pastore Italo Pons: “Il dialogo porta fraternità e fiducia, a beneficio di tutti”

Una citazione del Vangelo di Luca (10, 27: «Amerai il Signore tuo Dio […] e il tuo prossimo come te stesso») costituirà il tema generale della prossima Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, che andrà dal 18 al 25 gennaio (il programma completo degli eventi, i sussidi liturgici e altri materiali sono disponibili qui).

Italo Pons

Per l’occasione, abbiamo voluto porre alcune domande al pastore Italo Pons, che da tre anni esercita il suo ministero presso la Comunità Cristiana Evangelica di Bergamo (mercoledì 24 alle 20.45, tra l’altro, nella chiesa di S. Maria delle Grazie, in viale Papa Giovanni XXIII, egli prenderà parte con il vescovo Francesco Beschi e padre Bogdan Filip, parroco della comunità ortodossa romena di Bergamo, a una celebrazione ecumenica). 

Pastore, il comandamento evangelico dell’amore per Dio e per il prossimo viene spesso inteso come un principio ovvio, autoevidente. Dostoevskij faceva invece pronunciare a un suo personaggio (l’«ateo cerebrale» Ivan Karamazov) una considerazione di segno opposto: «Non ho mai potuto capire come si possa amare il prossimo. Secondo me, è impossibile amare proprio quelli che ti stanno vicino, mentre si potrebbe amare chi ci sta lontano». Considerando quanto è avvenuto in passato, perlomeno in certi periodi, nei rapporti tra diverse Chiese cristiane, si sarebbe tentati di dire che Ivan non abbia completamente torto. 

«Io vengo dal Piemonte, dalle “valli valdesi”, dove per almeno tre secoli – dal Cinquecento alla fine del Settecento – vi era stata un forte contrapposizione tra valdesi e cattolici. È poi seguito un periodo contraddistinto dall’affermazione del principio della libertà religiosa; ancora successivamente – grazie a Dio – si è avviato un dialogo interconfessionale che ha portato a una crescita comune. In effetti, dei rapporti di fraternità si erano già andati stabilendo prima degli incontri a livello teologico che si sono tenuti da alcuni decenni a questa parte. Anche nella mia cerchia familiare, vi sono dei cattolici. Detto diversamente: le antiche contrapposizioni e polemiche hanno fortunatamente lasciato il posto alla consapevolezza di un’unità che in qualche modo già sussiste, fra tutti coloro che credono in Gesù Cristo». 

Ci potrebbe nominare alcune figure, tra quelle che più si sono impegnati perché tale consapevolezza si diffondesse?

«Limitandomi all’Italia ricorderei perlomeno il pastore Renzo Bertalot (1929-2015), un vero pioniere dell’ecumenismo (fu lui, nel nostro Paese, a lanciare l’idea della TILC, la traduzione interconfessionale della Bibbia “in lingua corrente”), e monsignor Pietro Giachetti (1922-2006), vescovo di Pinerolo. In effetti, nel corso del tempo si è condotto un lavoro paziente, che non si limitava alla preparazione e alla conduzione della “Settimana di preghiera per l’unità”: si sono organizzati incontri comuni di lettura delle scritture, confronti su questioni teologiche, iniziative condivise di carattere culturale e sociale. Sono stati elaborati importanti documenti ecumenici, che avrebbero magari meritato di essere letti e conosciuti da un maggior numero di persone».  

Lei, prima di arrivare a Bergamo, aveva esercitato il suo ministero in altre città italiane? 

«Ero stato dapprima in Sicilia, poi in Molise, a Genova e a Milano. In tutti questi luoghi, la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani mi ha offerto l’occasione per incontrare altre realtà ecclesiali, diverse da quella a cui appartengo.  Questi incontri riguardavano anche il mondo ortodosso, con tutte le sue diversità e articolazioni interne. Riguardo alla mia esperienza a Bergamo, quando sono arrivato già era stato progettato un Consiglio delle Chiese cristiane, che ufficialmente è stato istituito un anno fa. Mi ha colpito, visitando una parrocchia cattolica, il fatto che in essa si cantassero durante le funzioni liturgiche anche degli inni propri della tradizione protestante. Al di là di qualche difficoltà occasionale, in determinati luoghi, io credo che anche in Italia si sia stabilito un clima di reciproca fiducia e collaborazione tra comunità evangeliche e cattoliche: prima di Natale, abbiamo promosso un ciclo di tre incontri sul tema Chiesa e potere, registrando un numero cospicuo di presenze di membri di ambedue le confessioni. In realtà, sono sempre le persone a decidere della realizzazione e del successo di questi scambi ecumenici “dal basso”». 

Dal punto di vista della possibilità di una testimonianza comune da parte di tutti i cristiani, lo scenario odierno non è radicalmente cambiato, anche solo rispetto a qualche decennio fa? Se in un’aula di una scuola superiore si nominano dei personaggi o degli episodi biblici, si constata facilmente che una netta maggioranza degli studenti non sa minimamente di che cosa si stia parlando. Secondo lo scrittore Marco Lodoli, «dal linguaggio corrente è scomparso qualsiasi rimando all’Antico e al Nuovo Testamento. Una volta, tutti sapevano chi fosse “il figliol prodigo”, quali guai avesse combinato e perché poi fosse tornato a casa da suo padre; se la nazionale di San Marino incontrava la Germania, il significato del titolo giornalistico “Davide sfida Golia” risultava chiaro a ogni ragazzo. Ora non è più così. È come se in un paio di generazioni si fosse dissolto un grande deposito di concetti e immagini a cui tutti attingevano».

«Lei solleva una questione molto importante. Nel 2018, le Chiese protestanti della comunione europea (GEKE) hanno elaborato un documento sul tema della diaspora dei cristiani nel nostro continente. La nostra condizione è sempre più minoritaria: una situazione che noi valdesi in Italia conoscevamo, per esperienza diretta, ma che già è documentata nel Nuovo Testamento, per quanto riguarda la vita delle prime comunità ecclesiali, all’interno del mondo pagano. Si è molto discusso e scritto, sulle implicazioni del fenomeno della secolarizzazione, che per alcuni tenderebbe a tradursi in una vera e propria “scristianizzazione”. Credo però che occorra pur sempre guardare in avanti, con speranza, ed essere creativi, immaginando nuovi modi per riappropriarci del patrimonio di immagini e principi a cui lei alludeva. Certo, soprattutto presso le nuove generazioni riscontriamo oggi un grande cambiamento rispetto al passato, anche dal punto di vista delle modalità di pensiero e di apprendimento. Probabilmente, i vecchi modelli di catechesi e trasmissione della fede andranno sostituiti con qualcosa di nuovo: non possiamo presupporre, oggi, che si possano tenere ai ragazzi delle “lezioni di dottrina” di 45 minuti, quando già dopo 10 nessuno ci ascolta più». 

Lei non ritiene che, su questo punto, le diverse Chiese potrebbero mettere in comune le loro esperienze?

«Se condividessero i loro percorsi con le relative difficoltà, senza paure né reticenze, tutti ne beneficerebbero. Tuttavia vorrei aggiungere una mia opinione, maturata anche alla luce di un trentennio di lavoro pastorale: se a livello di grandi folle pare davvero di riscontrare un distacco dalla pratica e dalla stessa conoscenza del cristianesimo, entro gruppi più ristretti si constata un interesse più profondo, più autentico che in passato per temi e questioni attinenti alla fede e alle Scritture. Anche dialogando con persone che non condividono alcuna appartenenza ecclesiale, capita di constatare che costoro si pongono domande “di senso”, relative all’esistenza di Dio, a ciò che potrebbe attenderci oltre la morte, al dogma cristiano della resurrezione della carne e così via. Questi interrogativi sono ancora ben presenti, nella coscienza di molti: il vero problema, allora, è se le Chiese istituzionali siano ancora in grado di intercettare tali istanze, di offrire ad esse risposte significative (se così non fosse, beh, a tutti noi converrebbe cambiare mestiere)».

  1. Ha detto delle parole giuste ma se non crediamo nel presente che sarà di noi dopo la morte quale futuro spirituale ci possiamo aspettare? Tutto del presente sarà vissuto invano?

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