Memoria, fede, ritualità. Marco Aime racconta la società individualista e la sfida di essere comunità

Il 2024 sarà un anno di elezioni: si concentreranno nei prossimi mesi a livello globale molte scadenze elettorali che porteranno alle urne più di 4 miliardi di persone, ovvero più della metà della popolazione sulla Terra.

USA, Russia, Brasile, India, Messico, Pakistan guidano la lista delle nazioni che andranno al voto alle quali si aggiunge il rinnovamento del Parlamento dell’Unione Europea e, più localmente, le votazioni per il nuovo Sindaco della città di Bergamo.

C’è un collegamento diretto tra il livello locale e quello più macroscopico. Eppure, nel mondo, nonostante l’enorme mobilitazione di persone chiamate a esprimere una preferenza, non sembra che la democrazia goda di buona salute.

Alcuni osservatori interpretano questo anno come un braccio di ferro tra il sistema democratico e le autocrazie. Anche per queste ragioni ACLI Bergamo ha organizzato un ricco percorso in sei incontri per i propri associati intitolato “Grammatica per una buona politica”. Presso l’auditorium del Liceo Mascheroni di Bergamo si alterneranno figure di alto profilo per definire il significato di alcune parole chiave che corrispondono ad altrettante grandi sfide che la democrazia dovrebbe sapere accogliere: comunità, antifascismo, uguaglianza, Europa, ambiente, pace.

Nella sua introduzione al primo incontro il presidente di ACLI Bergamo, Daniele Rocchetti, ha ricordato che la democrazia è un’eccezione nella storia, una creazione fragile che oggi vive in “stato di assedio”. Sembra che ad avere la meglio nella politica al tempo della globalizzazione siano nuove forme di appartenenza che ricalchino nostalgicamente vicende del passato. È la “retrotopia” definita qualche anno fa dal sociologo Zygmunt Bauman: il futuro è visto con timore, il passato è idealizzato, l’individuo è confuso.

“Abbiamo invertito la rotta e navighiamo a ritroso. Il futuro è finito alla gogna e il passato è stato spostato tra i crediti, rivalutato, a torto o a ragione, come spazio in cui le speranze non sono ancora screditate. Sono gli anni della retrotopia”.

Zygmunt Bauman, Retrotopia, Laterza Editore

C’era una volta la comunità

Il primo ospite del ciclo di eventi sulla politica iniziato lunedì 29 gennaio è il sociologo Marco Aime. A lui è affidato l’approfondimento del termine “comunità”: una delle parole più utilizzate e al contempo più difficili da definire. Aime al definisce una “parola trappola” perché ogni spiegazione che si possa individuare sembra sempre insufficiente tanto è ricco e variego l’uso di questo concetto.

“Oggi usiamo questa parola con nostalgia. Evoca il mondo dell’Albero degli Zoccoli”. I grandi cambiamenti sociali, economici ed urbanistici degli ultimi secoli hanno radicalmente cambiato la percezione del tempo, dello spazio e perfino della presenza dell’altro: hanno trasformato l’idea di comunità tanto da porci oggi di fronte all’interrogativo sul senso della sua esistenza.

La città moderna, nata con l’avvento dell’industria, ha assunto dimensioni enormi, ha unificato lo spazio. Ma è diventata così grande da non poter essere pensata e vissuta come realtà unica. Al suo interno si spostano individui sempre più isolati dagli altri. E il tempo ha assunto velocità crescenti e si è frammentato in momenti tra loro diversi e incomunicanti: è nata la distinzione, inconcepibile nella società contadina, tra tempo del lavoro e tempo libero. E ogni cosa si è fatta più veloce, accelerata, mentre la capacità di adattamento da parte dell’uomo fatica a reggere il passo. 

L’avvento del web nella sua forma tascabile, lo smartphone, ha impresso ulteriore radicalità ad un processo di cambiamento già in atto tempo. In questa realtà, vissuta da individui tra loro estranei perché dispersi sul territorio e affaticati perché sempre impegnati in molti impegni, di che tipo di comunità si può parlare? La società individualista e la democrazia sono tra loro compatibili?

“Riscoprire il valore della condivisione significa superare l’impoverimento umano e culturale a cui ci porta la solitudine della competizione a ogni costo, del possesso come marchio di successo”.

Marco Aime, Comunità, il Mulino

L’antropologo ricorda che una comunità esiste quando le persone collettivamente decidono che debba esistere: c’è un consenso collettivo necessario perché si dia luogo ad una comunità, una fiducia condivisa. Serve una buona memoria fondativa che radichi la società in valori e narrazioni che la motivino. E servono delle ritualità ripetute che alimentino il senso di appartenenza e rinnovino l’identità.

Ma nell’epoca della velocità e della bulimia delle informazioni il processo di consolidamento di una comunità è messo duramente alla prova perché non c’è il tempo per far sedimentare la memoria e perché è difficile che emergano delle narrazioni capaci di coinvolgere tutti.

Servirebbe trovare la pazienza per rallentare e rinnovare il senso di appartenenza. E sarebbe necessario individuare forme praticabili di incontro tra le persone poiché “la comunità non si può solo pensare, esiste se la si riesce a vivere”. 

Lo scenario descritto sembra preoccupante eppure, fa notare Aime, esistono esperienze illuminanti nate proprio dal web e poi arrivate nelle piazze. Le primavere arabe, il fenomeno delle “Sardine” e altri esempi simili sono in grado di mostrare una reazione alla società disgregata fondata sull’individuo. Certamente è necessario che si crei una connessione tra le nuove community digitali, luoghi dove circolano idee e parole chiave, e la vita off-line, in forme virtuose. 

Grande fiducia andrebbe data ai giovani, pochi e non valorizzati. Il loro contributo sarebbe decisivo per uscire dall’impasse di non riuscire a individuare un grande sogno collettivo per il futuro.

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