Reti sociali, oasi di fraternità. A proposito di inclusione, legami e storie delle persone

Chi si occupa di persone tenute ai margini sa che esse vanno incontrate ed accompagnate coltivando con loro le prospettive ed i loro propri modi del cammino personale e sociale, accogliendole in luoghi e contesti adeguati che possano abitare come luoghi di riconoscimento e attivazione. E aiutandoli nella loro relazione con servizi diversi e con diversi presidi sociali presenti nelle comunità e nei territori. Costruendo così con loro pratiche di reali reti di vita e di relazioni che permettano una rideclinazione, un ridisegno, di loro progetti di vita.

Costruire una rete (informativa, comunicativa, organizzativa, …) tra soggetti sociali, servizi, realtà della economia civile, comunità di accoglienza, volontariato, prende senso se risulta chiara a tutti la sua missione: offrire possibilità di aggancio e primo incontro per vite disperse e disorientate; aiutarle in un primo orientamento e una rielaborazione di vissuti e capacità; avviarle in percorsi di un nuovo “apprendimento della vita” lavorando sui limiti, sulle possibilità da scoprire,  sui desideri, tenendo vegliata, monitorata e sostenuta la loro storia unica.

Una rete intesa solo come razionalizzazione ed efficientizzazione di servizi, di risposte a bisogni, di tutela dei diritti, di scambi funzionali e risparmi di risorse non regge molto, e non ha molto senso. Fare rete tiene solo se si condivide una tensione ed una attenzione alla vita, se si guarda ad un orizzonte comune, se la rete è occasione preziosa di costruzione comune e continua della conoscenza di cosa vive nella convivenza, di cosa geme e di cosa germina.

Ci sono vite che ristagnano nell’abbandono, nella prostrazione, nella sofferenza psichica o che si muovono solo reattivamente, portando tensioni, abulie, forti contraddizioni e fratture. Vite uniche, che a volte cercano vita, o solo sopravvivenza; segnate da ingiustizia, o da sfinimento esistenziale. Vite che cercano vita o che si cercano e che provano.

Sono vite senza protezione, non riconosciute, senza cittadinanza, e senza capacità di influenza economica e neppure di scelte, di immaginazioni, di respiro. Eppure in qualche modo riescono a volte a costruirsi, a tenersi presenti nel tempo, in relazioni, vicinanze e gesti scambiati. Per loro possono essere importanti reti, diffuse e diversificate, che le incrocino, che stabiliscano contatti. Che inizino primi accompagnamenti, poi piccoli sviluppi. Certo, tutto può subito finire, cominciare e finire: nella mensa, nel dormitorietto, nel trattamento della sofferenza mentale, della dipendenza.

La vita, però, si attacca e si riprogetta come un lichene, fuori dalle logiche del mercato, dello scambio, dello stipendio, della casa di proprietà o in affitto. Se riesce un poco a creare qualche reticolo, a trovare qualche ramificazione, quasi origina una alleanza generativa e può resistere, può dar forma ad una nostalgia, un anticipo di vita a-venire.

Chissà se riuscirà poi a sollecitare la città, se qualcuno nella città ascolterà, proverà a ripensare le prossimità e la giustizia. Questo potrebbe appassionare, questo potrebbe impegnare donne e uomini attenti, che provano dignità e giustizia. E che si mettono in rete tra loro, continuamente chiedendosi della loro utilità accanto a tanti percorsi silenziosi, di sfinimento e rinuncia: che non ci credono più.

Ci sono due questioni fondamentali che sfidano la rete. La prima è quella di acquisire una nuova sensibilità e capacità per riuscire a leggere la marginalità come un luogo i cui si trovano forme nuove di vita, certo marginali e proprio per questo nuove; non per forza tutte buone, ma da riconoscere e da incontrare. La seconda riguarda la consapevolezza che dopo che si è riusciti a riconoscerle ed incontrarle non si potrà che lavorare per immaginare forme nuove di vita, di far casa, di lavoro, forme nuove da far nascere (o di cui completare il germoglio) dentro la convivenza., i suoi luoghi, le sue logiche, i suoi conflitti.

La marginalità viene spesso collegata al termine ‘resilienza’, come dire che va letta e considerata come vita che cerca una nuova forma per non morire. Vita che cerca vita. Nel nostro lavoro speso incontriamo queste vite resilienti, di persone che hanno già dato risposte materiali a bisogni materiali. Sono risposte fragili, a volte cristallizzate e precarie. Ma non può che partire da lì un gesto e una parola d’incontro: quelli che loro consentano in cerca di una risposta a un bisogno, a uno squilibrio improvviso. 

Se ci limitiamo a questo, però, rischiamo di riconfermare queste persone nella lettura che esse danno di se stesse e del loro destino, in continua ricerca della soddisfazione di necessità, di riconoscimento di diritti, nella incapacità di uscire dalle sfortune della vita. A meno che, partendo da lì, proponiamo risposte che son dentro a relazioni, riconoscimenti che son dentro legami, e progressive valorizzazioni di capacità di vivere che essi portano, che in loro han resistito.

Cammini fuori da predestinazioni e identità marginali e da scartati per i quali occorre preparare reti ampie, ricche e pazientemente creative, oltre che capaci di cura. Certo che si faranno i conti con il dolore, e quell’imprigionamento di sé dentro i riti e gli stordimenti della vita di strada che ha anche un effetto anestetico. Memorie, ferite e fallimenti mordono; e accogliere, incontrare, riattivare il sentire, raccogliere la storia e i suoi pezzi fa male, ma si può reggere se ci sono prossimità, realtà diverse, persone attente in una rete vitale.

Le reti rischiano di venire assimilate e travolte dentro il gorgo delle marginalità quando sono forme di un servizio alle marginalità che le “contengono” dentro giudizi e rappresentazioni d’esclusione, quando non le fanno raccontare per ciò che han da manifestare come istanza fortemente critica e di disvelamento circa l’abitare, il lavorare, il relazionarsi e l’incontrarsi nelle trame della città, nei quartieri, dei territori. 

Per reggere, mostrare, avviare diverse narrazioni servono le storie concrete di inedite forme di relazioni, di possibili organizzazioni della vita, di condivisioni. Servono reti di legami, di conoscenza, di immaginazione e di progetto.

La rete serve e ha senso perché dove non arrivi tu, possano arrivare gli altri: ad incontrare altre presenze, a dire come può funzionare, perché tu possa dire loro cosa non riesci a fare e che forse nell’incontro con alcune condizioni di vita, potrebbe essere favorito da un altro punto di avvicinamento. La rete ha senso se è questo: se non serve a catturare ma a trovare dei riverberi che permettono il riconoscimento e avvicinare all’incontro. Incontro con persone che non si considerino solo come portatori di un bisogno, ma che siano contente che tu entri in quel loro tratto di vita, con un tuo contributo. Allora sì che cambia il mondo. Come in una sorta di profezia del quotidiano.

Le reti ci servono per far nascere delle esperienze di soglia nelle quali appoggiare il crescere di questa ricerca di vita che non sia vita che rinuncia a troppe dimensioni del sé come a volte è della vita marginale, di strada. 

Eppure il grande rischio del lavoro sulla marginalità è quello di essere utile. E di non essere per niente perturbativo. Si lavora per combattere la marginalità: non puoi essere utile alla marginalità, nel senso di corrispondere puramente a dei bisogni. Altrimenti non parte nessun progetto, nessuna speranza, se non quella di aver domani risolto il bisogno di oggi. Ma che speranza è? Il rischio è di fare questo. Per questo le reti nelle relazioni sociali devono essere perturbative e non accomodanti, non devono contribuire a normalizzare la marginalità ma a rimescolare le carte in gioco. Cosa fare di fronte a questo? Cosa può fare una rete? Come possiamo rendere le sue azioni perturbative? 

La rete deve mettere in discussione l’uso degli spazi, dei tempi ad esempio, e questo è perturbativo. Fare qualcosa di concreto è perturbativo, la forza della concretezza si esprime se ha dentro una visione particolare della pratica dell’asilo e della necessità di tessere forme di sostegno reciproco. Con una visione della vita in comune, un fare insieme che è un fare avvenire. Per il solo fatto che ci sia, perturba. Se si riesce in una realtà anche locale a dare inizio ad esperienze che segnino delle alleanze inedite, di reciprocità, se si creano aree di legame, sufficientemente articolate e stabili, si crea la visibilità di una immaginazione concreta che può fare da segno di contraddizione, senza neanche bisogno di un racconto troppo provocatorio.

Non è tempo di provocazioni solo declamate. Questo è il tempo delle oasi di fraternità, delle comunità e delle reti, abbastanza ampie, in cui tante scelte di stili di vita, tante deontologie professionali, o invenzioni organizzative sostengano nuovi linguaggi culturali, politici progettuali. Quando negli scritti di papa Francesco si dice che è dai margini che una comunità trova il cuore di sé stessa, non si incontra una frase retorica: è così perché è proprio lì che non può che cominciare il senso della relazione cercando di trovare le forme di una vita che cerca vita. È lì che non si può che ritrovare una configurazione nuova alla vita comune, perché essa è obbligata ad assumerla per forza. La configurazione non è frutto solo di un progetto ma dipende da quanta lucidità, etica, cultura e capacità anche professionale mettiamo in gioco nel momento in cui le cose nascono. 

C’è una produzione continua dei meccanismi di esclusione nell’area della marginalità: noi dobbiamo contribuire a costruire sogni, cammini, evoluzioni di storie. Questo vuole dire che con il nostro lavoro noi incontriamo storie, non condizioni e bisogni. E offriamo i servizi sui bisogni come occasione pratica e concreta di riconoscimento e credibilità per avere la possibilità di costruire racconti comuni. Incontrare storie e approssimarle, e aprirle in nuovi cammini.

La rete serve proprio a questo, a realizzare non più solo un’accoglienza ma ad acquisire una visione generale sui fragili, sugli altri. Serve una rete e soprattutto una strategia, una visione forte, una alleanza.

La rete serve certo per le emergenze e per i singoli percorsi con alcuni, diversi dai percorsi con altri. Per rompere il circuito della disumanizzazione. Quando sei nella necessità assoluta ti concedi tutto: violenza, distanza, indifferenza estrema. 

A volte solo quando uno viene consumato fino in fondo può ritrovar sé stesso. E troviamo traccia di questo nell’Antico Testamento ma anche nella grande tragedia greca. Lì è interessante vedere come il ritrovar sé stessi avviene quando si incontra un gesto di pietà: è quel gesto di pietà che è importante, che è un annuncio e un richiamo. Quello sguardo, quel gesto, ti dà un annuncio riconoscendoti, accettandoti come parte di un gioco di vita che è possibile scoprire grazie a una rete di mondi di vita che possono colmare le mancanze e creare mondi possibili. La perturbazione è questa: essere un po’ esigenti e capaci di capire dove possiamo arrivare, affidandoci gli uni agli altri 

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