La scuola di oggi vista con gli occhi dei ragazzi. Christian Raimo: “Gli adulti non sanno più educare alla democrazia”

Gli studenti liceali della Terza M della Scuola Amaldi di Roma, nel quartiere di periferia Castelverde,  prendono la penna per raccontare cosa vuol dire avere 16 anni oggi in Italia. Lo fanno con un testo scritto a più mani in un anno (2022-2023) con il docente Christian Raimo “Lettera alla scuola” (Feltrinelli  Junior 2024, Illustrazione di copertina di Zerocalcare, per giovani dai 13 anni in su, pp. 128, euro 13,00). 

Dopo aver letto insieme a Christian Raimo “Lettera a una professoressa” (1967)di don Lorenzo Milani (Firenze, 27 maggio 1923 – 26 giugno 1967) la classe si è interrogata su come sia la scuola di oggi, trasformando quelle domande in una grande questione sul senso odierno dell’educazione, ripercorrendo la struttura della “Lettera”in un dialogo continuo tra passato e presente.

“A Barbiana avevo imparato che le regole dello scrivere sono: aver qualcosa di importante da dire e che  sia utile a tutti o a molti. Sapere a chi si scrive. Raccogliere tutto quello che serve. Trovare una logica su cui ordinarlo. Eliminare ogni parola che non serve. Eliminare ogni parola che non usiamo parlando. Non porsi limiti di tempo. Così scrivo con i miei compagni questa lettera. Così spero che scriveranno i miei scolari quando sarò maestro”. “Lettera a una professoressa”, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1967.

Abbiamo intervistato l’insegnante e scrittore Christian Raimo.

  • Come mai a scuola si parla di tutto ma c’è un tema che non viene quasi mai affrontato: la scuola stessa? 

«Innanzitutto perché non c’è abbastanza tempo di questioni che non sono legate a una faticosa routine. Inoltre questo è accaduto negli ultimi 20/25 anni in coincidenza con l’infragilirsi del dibattito politico in generale. La partecipazione alla politica dalla Seconda Repubblica in poi è pian piano scemata, c’è un forte astensionismo e le persone che si iscrivono ai partiti politici e ai sindacati sono sempre di meno, dedicando in tal modo meno tempo all’impegno e alla politica. Questo avviene anche a scuola, ma non è stato sempre così. Cinquant’anni fa, nel 1974 furono emanati i provvedimenti delegati sulla scuola (anche chiamati decreti delegati sulla scuola) raccolta di sei atti normativi, che hanno rappresentato di fatto il primo testo unico organico riguardante l’istruzione non universitaria nell’Italia repubblicana. A quelle elezioni scolastiche parteciparono 20 milioni di persone e le assemblee preparatorie videro la presenza di quasi 5 milioni di persone. Quelle persone parlavano molto su cosa voleva dire la scuola, ragionavano sull’istruzione, sull’educazione, si formavano. Quindi la scuola pubblica rifletteva molto su sé stessa e sulla sua propria funzione».  

  • Il vostro libro affronta temi urgenti e attuali, vicini all’esperienza delle studentesse e degli studenti. Ce ne vuole parlare? 

«La scuola è soprattutto un grande laboratorio di confronto tra adulti e non adulti. Oggi la maggiore fonte di crisi di questo rapporto è che abbiamo una crisi nel diventare adulti, che non è più un elemento di senso in sé. I motivi sono tanti. C’è una classe politica che non è autorevole, il Pianeta è in crisi: emergenza climatica, guerre, pandemie… Si è ribaltata la piramide gerarchica dell’età. Oggi il mondo adulto è più consistente dal punto di vista demografico di quello degli under 18. Passare il testimone da una generazione all’altra è sempre più difficile. Il mondo adulto spesso ribadisce in modo arrogante le proprie convinzioni, costringendo a una forma di immobilismo sociale, quindi la crescita non appare più come un valore. Ora si ribadiscono valori della tradizione, del rispetto, del merito, parole invalse nel dibattito pubblico sulla scuola e che indicano la mancanza di capacità del mondo adulto di ragionare in termini di educazione alla democrazia, alla discussione, anche educazione al dissidio. Inoltre vi sono norme che ritornano al passato. È di questi giorni la reintroduzione dei voti alla primaria, e pensare che 4 anni fa c’era stata un’ottima riforma, che aveva introdotto il giudizio formativo». 

  • Che cosa voleva dimostrare don Milani con “Lettera a una professoressa” scritto da alcuni ragazzi della scuola di Barbiana, sotto la sua supervisione? 

«Lo dice esplicitamente nelle prime righe: “Questo libro è un invito a organizzarsi”. “Lettera a una professoressa” è scritto da studenti per una professoressa ma destinato ai genitori. L’invito a organizzarsi era destinato alle famiglie e ai genitori, a una società che in quel momento non era politicizzata ma si rendeva conto che la scuola era un dispositivo di riproduzione sociale delle diseguaglianze. Con il ‘68 e soprattutto con il ‘69, una grande massa di persone reclama e ottiene l’accesso all’istruzione superiore e all’università. Nella prima metà degli anni Settanta un mondo di poveri, che finora era stato escluso, entra dalla porta principale dell’istruzione scolastica, rivendicando uno spazio da protagonista nelle scelte politiche. È una parentesi importante, che avviene anche attraverso un investimento importante. Nel 1971 avevamo quasi un quinto della spesa sociale destinata all’istruzione, ricerca e cultura. Oggi siamo sotto il 7% e ciò è avvenuto per scelte politiche molto precise, da Berlusconi in poi. Adesso il diritto allo studio qualificato non è più un diritto». 

  • “Lettera alla scuola” è un libro politico? 

«È un libro che viene fuori dalle discussioni che abbiamo fatto in classe, ragionando su cosa voglia dire “politica” a partire da Socrate, Platone, passando dai comuni medievali fino ad arrivare al Novecento, a Simone Weil. Sono un professore di Storia e Filosofia e ritengo che in classe si possa discutere tra adulti e non adulti del senso della costruzione della democrazia. Il volume è anche un invito a chi fa parte della comunità scolastica a ragionare insieme su come migliorare l‘esperienza educativa, l’istituzione scolastica, e la società intera per diventarne veri protagonisti».

  • Una scuola senza bocciature è possibile? 

«Secondo me sì. Mauro Piras, docente di filosofia e storia nella scuola secondaria di secondo grado, che si occupa di politica scolastica, qualche anno fa scrisse un articolo dove proponeva un modello modulare. Si possono completare gli studi, anche superiori, senza perdere un anno ma avendo dei livelli di competenza minori rispetto a delle materie su cui si fatica di più. Per lo Stato una bocciatura significa una spesa in più. La bocciatura è anche un trauma per gli studenti».

  • Per quale motivo gli episodi di violenza contro i docenti delle scuole d’ogni ordine e grado non si contano più? 

«Spesso queste notizie sono “bufale mediatiche”. Le notizie che abbiamo vanno in controtendenza. Le scuole nella maggior parte dei casi sono i posti più sicuri. Episodi marginali di violenza vengono amplificati. In Italia ci sono quasi 9 milioni di studenti, mi stupirei se non ci fosse qualche marginale episodio di violenza. La scuola negli anni Settanta/Ottanta/Novanta era straordinariamente più violenta di oggi, molti gli episodi di violenza degli insegnanti nei confronti degli studenti, episodi che sono stati la norma per tutto il Novecento. Infatti, era normale usare le mani nei confronti degli studenti». 

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