Civil War, il film di Alex Garland in tempo di elezioni pone domande su democrazia e partecipazione

Una giovane fotografa caduta in una fossa comune cerca di trovare una via d’uscita appoggiandosi ai corpi inermi di donne e uomini ricoperti di calce. Sul suo volto ci sono terrore, disgusto, compassione: ciò che provano le persone quando si rapportano ai momenti più oscuri della storia del mondo. 

È questa una delle scene chiave del film Civil War del regista britannico Alex Garland uscito nelle sale cinematografiche italiane il 18 aprile 2024. La pellicola ha animato un acceso dibattito negli Stati Uniti anche a causa del collegamento che molti commentatori hanno fatto tra la trama del film e l’assalto dei sostenitori di Donald Trump a Capitol Hill del 6 gennaio 2021, quando il presidente statunitense uscito sconfitto dalle elezioni ha strizzato l’occhio a un tentativo di insurrezione da parte di alcune frange estremiste della sua parte politica.

In quello scontro hanno perso la vita cinque persone, molti sono rimasti feriti e i danni materiali causati dentro l’edificio che ospita il Congresso degli Stati Uniti d’America sono stati importanti.

Soprattutto il mondo si è interrogato sulla solidità della democrazia americana dopo un fatto di così grave portata e di tale violenza. 

Il film ovviamente non cita nessun presidente USA in particolare. È ambientato in un possibile futuro o in un ipotetico presente. Mette in scena una guerra civile contemporanea che sembra rievocare la storica Guerra di Secessione.

A rendere interessante l’opera, oltre che per la qualità della recitazione e della fotografia, sono le domande che solleva nello spettatore. Come si è arrivati ad uno scontro nel quale nemmeno si riescono a identificare le fazioni in conflitto? Quali errori hanno consentito uno disfacimento delle istituzioni e permesso che una grande democrazia scivolasse verso una deriva autoritaria? Le questioni che si sollevano sono effettivamente di grande attualità.

Il film esce nell’anno nel quale la maggior parte dei cittadini del mondo sono chiamati alle urne: le elezioni del 2024 più che la scelta di parlamentari e governi negli stati nazionali sembrano un referendum tra democrazia e autoritarismo.

Chiedersi che valore abbia oggi la sovranità del cittadino, in che modo la si possa custodire, come vada gestito il ruolo della rappresentanza ha un’enorme importanza. La tentazione di ridimensionare i diritti civili delle persone e di concentrare il potere nelle mani di pochi è una spinta presente nella cronaca e rende la democrazia una realtà non scontata e non universalmente riconosciuta come positiva. 

I protagonisti del film sono giornalisti e fotografi che da New York vogliono raggiungere la capitale Washington prima dell’arrivo dell’esercito composto dall’alleanza della Florida e dalle Forze occidentali di Texas e California. Nel loro viaggio documentano scontri armati, città distrutte, tentativi di ignorare la guerra, battaglie sulla prima linea di combattimento che rievocano luoghi del mondo lontani dagli USA, prepotenze e vendette consumante senza remore.

Proprio l’informazione autorevole e indipendente costituisce un pilastro dello stato di diritto. Il giornalismo ha il compito di essere “cane da guardia del potere”. Ma oggi la sua indipendenza è realmente garantita? L’uso strumentale della comunicazione per sostenere una particolare visione del mondo rischia di confondere verità e falsità, autenticità e menzogna, affidabilità e inganno.

Civil War si apre con il Presidente che si prepara per pronunciare un discorso in televisione che non ha alcun fondamento di verità. Eppure le sue parole saranno trasmesse in diretta tv. Nella confusione le persone perdono la capacità di fidarsi e finiscono per porsi le une nemiche delle altre minando così il patto sociale fondamentale. Che tipo di società è possibile se viene a mancare l’affidabilità nella parola dell’altro e se non c’è nessuno in grado di discernere il vero dal falso?

Nel film temi sociali e politici si intrecciano a questioni di natura più esistenziale. Lee, la fotografa esperta di reportage di guerra in zone remote del pianeta ora raccoglie immagini nella sua nazione. Ha il volto stanco. È provata da tanta violenza vista nei luoghi più disparati del globo.

Essere fredda, distaccata e un po’ cinica sembra il suo modo per resistere al carico di dolore che attraverso l’obiettivo della macchina fotografica è arrivato al cuore. Sembra non riuscire nemmeno a capire e quindi a sostenere le passioni e la nobiltà d’animo della giovane Jessie che la ammira come un idolo e che vorrebbe seguirne le orme. Il volto della fotografa con il suo sguardo a volte perso nel vuoto è un’altra domanda aperta: possiamo essere umani nonostante la violenza che insanguina la storia? Non rischiamo di soffocare ogni ideale e il senso della fraternità a causa dell’abitudine a frequentare lotte fratricide?

“Qualcuno ci vuole uccidere e noi vogliamo uccidere loro” dice un soldato nascosto nell’erba e pronto a sparare ad un cecchino senza volto e senza identità che lo minaccia da lontano. La violenza alimenta se stessa e presto le ragioni del conflitto si dimenticano. Restano solo l’odio e la paura.

Così sparisce anche il senso di appartenenza ad una fazione: diventa una lotta “tutto contro tutti” con il solo obiettivo di annientare l’altro. Ma nessuno si chiede se c’è un bene verso il quale si tende oppure se c’è un sogno per il futuro per il quale si sta lottando. Le alleanze più improbabili – Texas e California – reggono sulla base dello scontro con un nemico comune ma daranno vita a nuove divisioni non appena lo si sarà sconfitto. Sembra lo specchio di un’umanità smarrita che nemmeno immagina ci si possa interrogare su obiettivi – valori – ideali. 

In Civil War non sorride nessuno. Tranne che in una scena: il fuoristrada con la scritta ‘press’ sulla fiancata si ferma in uno stadio trasformato in campo profughi. Lì, in una situazione di disagio e precarietà, le persone sembrano aver trovato un riparo dell’odio e si godono dei momenti di vera socialità. Solo in questo luogo, dove tutti sono disarmati, si riesce a sorridere e a guardare le persone in volto. 

Anche nel prato dove i soldati sono sdraiati e pronti a sparare crescono bellissimi fiori di campo. Saperli vedere è un residuo di umanità e forse uno spiraglio di speranza. Forse ne rimane anche per il mondo reale, fuori dal cinema.

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