Chiesa e missione. Dieci domande sulla guerra: risponde suor Rosaria Donadoni dalla Repubblica Centrafricana

Republica centrafricana

Inauguriamo una nuova rubrica in collaborazione con il Centro Missionario Diocesano di Bergamo per parlare di Chiesa e Missione. La foto di apertura richiama un planisfero con una zona “illuminata”, perché è proprio questo il senso del viaggio che iniziamo con ognuno di questi articoli. Un cammino alla scoperta di diverse zone del mondo e di diversi temi di attualità che non riguardano solo la situazione di terre lontane ma richiamano aspetti diversi e cruciali della società contemporanea. Sono temi che interpellano ognuno di noi e chiamano ad agire, a partire dalla propria quotidianità. Iniziamo con “Dieci domande sulla guerra” rivolte a suor Rosaria Donadoni, comboniana originaria di Villa d’Almè, in missione nella Repubblica Centrafricana. Questa rubrica tornerà come appuntamento fisso del martedì nell’ultima settimana del mese.

  • Dove vive suor Rosaria?

Vivo a Bangui nella Repubblica Centrafricana. Ho raggiunto questa terra nel 1991. Forse quei primi anni sono gli unici che ricordo senza guerra. 

  • Come fa a raccontare la guerra a noi che non la conosciamo da vicino?

Ingiustizia, violenza, morte. Tre parole terribili che, senza entrare nell’analisi delle cause, sintetizzano quello che vivono le persone, i bambini, le famiglie. Ogni tanto sembra che soffino venti di pace e si spera che questi momenti siano duraturi, ma da troppi anni ormai dobbiamo ogni volta renderci conto che non è finita.

  • Lei e le sue consorelle vivete in una situazione di pericolo?

Viviamo in una città in cui i controlli per la sicurezza sono alti. Ma si sentono gli spari, la guerra non è lontana. Alcuni mesi fa durante una riunione via Zoom con alcune consorelle lontane, anche loro hanno sentito in modo nitido il rumore secco e forte degli spari. Abbiamo immediatamente lasciato il computer e ci siamo nascoste in corridoio con il cuore in gola e la preghiera sulle labbra. Inutile dire che le suore hanno avuto molta paura per la nostra sorte. 

  • Lei ha paura?

Sarei un’incosciente a dire che non ho paura. La realtà è evidente. E’ una guerra a cui si aggiungono incursioni di bande e di gruppi armati che fanno razzie e seminano paura e violenza. In una delle sedie della nostra casa è conficcato un proiettile, uno di quelli che vengono definiti ‘vaganti’ perché sparati nelle strade per far sentire la voce della prepotenza e della minaccia. E’ entrato dalla nostra finestra e fortunatamente non ha colpito nessuna di noi. Abbiamo deciso di tenerlo lì, è il segno della guerra che la nostra gente subisce da troppo tempo.

  • Politica o religione? Qual è la causa di questa guerra?

E’ una guerra complicata che si protrae da tanto tempo e che muta nelle sue dinamiche. Ad armarsi sono spesso mercenari che giungono da oltre confine. Non la si può definire una guerra di religione: qui si sono avviati cammini di dialogo tra cattolici, musulmani e protestanti. Potere e ricchezza sono la posta in gioco in questo tipo di conflitto. La nostra gente povera vive su un territorio molto ricco dal punto di vista dei giacimenti e a molti interessa metterci sopra le mani. 

  • Cosa fa la missione in una situazione così difficile e instabile?

Educazione e speranza sono quello che possiamo continuare a seminare anche in mezzo alla guerra. Lo facciamo per i bambini, i ragazzi, i giovani ma soprattutto per i genitori. Ci occupiamo naturalmente anche dell’aiuto ai più poveri e di progetti sociali, ma occorre tenere viva la missione della speranza. La gente non smette di sperare, anche quando sembra che questo conflitto non abbia fine. Si accontentano del poco, resistono anche grazie ad una grande fede calata nella loro vita quotidiana e vanno avanti. 

  • Come si fa educazione in mezzo ad una guerra?

Personalmente sto portando avanti un lavoro sviluppato con le Opere Pontificie e un gruppo di giovani. Andiamo nelle scuole a parlare di diritti dei bambini e di rispetto. Ad ascoltare non sono solo i ragazzi, ma anche i loro insegnanti che sono loro stessi genitori. Nel 2019 avevo visitato 24 scuole cattoliche. E’ stata un’esperienza bellissima. C’è bisogno di parlare e di educare alla pace e al dialogo. 

  • Collabora anche con le parrocchie? 

Sì, questa iniziativa bussa anche alle porte delle parrocchie e con alcuni sacerdoti abbiamo iniziato a ragionare su come dare un aspetto più missionario alla parrocchia. Sogno parrocchie missionarie.

  • Trent’anni in Centrafrica. Quale rapporto ha sviluppato con questo popolo ormai stremato?

Quello che mi colpisce è che è un popolo gioioso nel suo spirito. Il popolo è stato per me una scuola che mi ha trasmesso i valori della gratitudine, dell’accoglienza, della generosità e della freschezza della fede. La gente guarda a noi soprattutto con lo sguardo riconoscente verso chi, nella guerra, non è scappato ma è rimasto lì a soffrire, a temere, a sperare con loro. 

  • Se dovesse regalarci un’immagine che rappresenta quello che ci ha raccontato, cosa sceglierebbe?

Da dicembre sono riprese le grandi celebrazioni con la presenza di molte persone e con i lunghi e festosi riti che accompagnano la Messa. Intorno, per garantire la sicurezza di tutti, ci sono i militari armati. Credo sia un’immagine chiara e forte.