La speranza oltre la malattia e la morte, lasciare un seme nella comunità. Grazie, Gianni!

Ci sono persone che segnano profondamente la nostra vita. E persone che segnano profondamente la vita della comunità nella quale vivono, sia a livello civile che religioso. A Telgate, Gianni è una di queste persone.

Gianni è partito per il Paradiso l’11 dicembre scorso, dopo alcuni mesi di malattia. Tre settimane prima, come avveniva frequentemente in questi ultimi anni, io e don Mario, arciprete di Telgate, eravamo a pranzo, la domenica, da lui e sua moglie Gina, insieme alla figlia Lucia e a Stefano. Quei pasti sono sempre stati momenti di gioia e di divertimento.

Poteva essere stata la settimana più pesante dell’anno, ma vedere Gina e Gianni era come vedere uno spettacolo di cabaret. Gianni che provocava Gina con qualche scusa, lei che urlava e fingeva di dargli un pugno o lanciargli la ciabatta.

Gioie e difficoltà vissute sempre insieme

Gina che parlava e Gianni che, per prenderla in giro, esclamava ad alta voce: “L’è dre a fa la farauna ades!” (per chi avesse difficoltà con il bergamasco: “Sta facendo la faraona, adesso”). E si rideva. Tre settimane fa Gianni era affaticato, ma non aveva perso il sorriso: voleva averci ospiti ancora una volta e, a conclusione del pranzo, dirci che non aveva voluto farsi operare al male che l’aveva colpito.

Troppi rischi, data l’età (86 anni). E quelle parole che porterò nel cuore: “Il Signore c’è anche per me. Finché il Signore vorrà sto qui volentieri!”. Vedere lui e Gina, sposati da 61 anni, insieme, era una catechesi vivente sull’amore, sulla dedizione l’uno all’altro dei coniugi, su come si affronta tutto insieme. Hanno affrontato davvero tutto insieme, Gina e Gianni. Hanno vissuto la morte, per incidente domestico, del primogenito Sergio, a soli tre anni. Hanno vissuto insieme anche la malattia di Gianni, che ha condiviso tutto con la sua “Gatina” (Gina si chiama Gatti, di cognome), ma proprio tutto. A Telgate “il Gianni della Gina” o “Giani Pesenti” è un’istituzione. C’erano lavori di falegnameria, porte che non si aprivano, aggiustamenti da fare a qualsiasi cosa? Bastava chiamare Gianni. E lui arrivava.

Il bene fatto restando in disparte, con discrezione

Non so quanta gente abbia voluto bene alla Chiesa, sia in Parrocchia che in Oratorio, come Gianni e sua moglie Gina. E questo tanto bene sempre fatto nella più assoluta discrezione, perché il bene, quello vero, non ha bisogno di proclami. Chi ama sa farlo in silenzio e sa donare la vita senza apparire su giornali o pubblici annunci. E senza applausi. Gianni, poi, è inscindibile dal suo cappello da alpino. Sì, perché lui non solo ha fatto, ma è stato alpino, fino in fondo.

Non si è alpini solo se si è svolto il servizio militare in quel corpo, né perché si indossa un cappello, ma quando si incarnano i valori che si imparano nel servizio su quelle rocce e su quei ghiacciai, come recita la loro preghiera. Gianni, da alpino vero, ha dato tutto se stesso per gli altri, con amore e passione, retto da una profonda fede, soprattutto nella devozione al Santo Crocefisso di Telgate, che tanto ha sperato di poter vedere in Chiesa la scorsa solennità di Cristo Re, riuscendo nel suo intento. Più volte Gianni ha sofferto.

Non sempre il suo amore e la sua dedizione sono stati capiti: a volte il bene non gli è stato riconosciuto e qualche gesto lo ha ferito. Raccontandomi alcuni episodi per sfogarsi, ma senza alcuna cattiveria, io gli risposi: “No Gianni, non tacere, devi farti valere, non è giusto!”.

Un cappello da alpino che “ha fatto le bufere”

E lui, insegnando a me quello che avrei forse dovuto dire io a lui, sorridendo rispose: “Ma no don Alberto, lasciamo stare. Perché litigare? Sono rimasto male, ma vado avanti a fare il mio compito.. il resto non mi interessa. Va tutto bene!”.

Gianni era così e sinceramente mentre ripenso a queste parole da uomo vero mi viene anche un po’ da piangere. Perché Gianni ha voluto bene a tutti noi preti e noi ne abbiamo voluto a lui. Tanto. Un ultimo ricordo ci tengo a condividere. Mi è sempre piaciuto il cappello da alpino. So bene che è “sacro” per gli alpini e che lo può portare, come è giusto, solo chi è alpino. Gianni lo sapeva e qualche mese fa ha sistemato un suo cappello da alpino e me lo ha donato, con queste parole che rimarranno indelebili nel mio cuore: “Don, glielo regalo. Questo non viene dal negozio.. questo, tanti anni fa, ha fatto le bufere!”.

Caro Gianni, grazie, grazie di cuore. Ora che per te sono passate le bufere di questa vita, ora che il Signore ti fa camminare sulle vette del cielo, guardaci col tuo sorriso e, tenendo in braccio il tuo Sergio, indicaci la via che conduce all’incontro con il Padre: lì, sulle cime dell’amore, ci rivedremo e potremo stare insieme. Per sempre.