La guerra del calcio

Il calcio è anche guerra. A ricordarcelo, ultimo episodio di una nutrita serie, il morso di Suarez di cui ha fatto le spese il nostro Chiellini e che è costato al giocatore uruguaiano nove turni di squalifica. Quanto, del mondo pallonaro, rimanda all’universo bellico: la competizione in campo, con gli scontri fisici e parole d’ordine come nemico, cattiveria, lacrime&sangue; la competizione fuori dal campo, con gli insulti reciproci tra tifoserie e una violenza che da verbale spesso si trasforma in fisica (e di verbale resta solo quello della polizia a fine giornata); l’odio viscerale, estremo, totale per quelle figure – forze dell’ordine e arbitri in primis – che rappresentano un punto fermo di regole in un territorio che da queste si vorrebbe sempre più svincolato e libero.Se vogliamo, persino l’idea stessa di calcio, anche se in forma ancora inconscia e primitiva, nasce nell’ambito di una guerra lontana: quando, poco più di duecento anni prima di Cristo, i Romani vittoriosi al Metauro fecero rotolare sul campo di battaglia a mo’ di palla la testa di Asdrubale, comandante dei Cartaginesi, sotto gli occhi sconvolti di suo fratello Annibale.

Ovviamente non è minimamente in discussione la bellezza del calcio e dello sport in generale, che anzi segnano una tappa fondamentale nella storia dell’umana civiltà: aver sublimato in forme pacifiche e festose il conflitto, trasformandolo in competizione leale, aver reso occasione di incontro e di fraternità momenti di rivalità sono solo alcuni dei risultati benefici, direi quasi provvidenziali, che la società ha raggiunto grazie allo sport.

Il problema è che troppo spesso, soprattutto negli ultimi tempi, la guerra simulata che lo sport dovrebbe essere si trasforma in guerra vera, con effetti devastanti: la recentissima addentatura impressa sulla spalle di un difensore della nazionale italiana, i feriti (per non parlare dei morti) che troppe volte seguono a partite di calcio – dall’Heysel 1985 a Roma 2014, passando per Catania 2007 –, il livore, la brutalità e il fanatismo che regnano sugli spalti degli stadi ci ricordano quanto sia facile varcare il confine che separa lo spettacolo dalla realtà, quanto il mondo dello sport sia troppo spesso la scusa sfruttata da chi sogna un ritorno alle origini tribali e cruente della nostra preistoria.

Ma ci ricordano anche la faccia pulita della medaglia, e cioè quanto siano salutari quelle regole che l’uomo, con la guida della ragione, ha saputo dare al proprio vivere, sport compreso. Per evitare di perdere le partite come fossero guerre e guerre come fossero partite, come disse di noi italiani Winston Churchill.