Fratel Biemmi: «No alla Chiesa-museo: ci vuole un laboratorio permanente, per rileggere il Vangelo in una prospettiva nuova»

Da un lato, suscita un senso di ammirazione la generosità con cui tante persone animano nelle parrocchie i gruppi del catechismo; dall’altro, sembrerebbe che qualcosa si sia inceppato e necessiti di un’approfondita revisione, nei dispositivi con cui per molto tempo si è trasmessa la fede da una generazione all’altra. Avrà per titolo La Parola che si spiega. La catechesi e le sue forme dopo il Concilio il convegno che si terrà nei tre pomeriggi e serate da martedì 24 a giovedì 26 luglio nella sala consiliare di Sotto il Monte Giovanni XXIII; a promuovere l’iniziativa è un gruppo di preti e di laici che – mantenendosi fedeli a un’intuizione di don Sergio Colombo (1942-2013) – approfondiscono di anno in anno diversi aspetti del magistero del Vaticano (il programma completo del convegno, per cui si chiede un contributo di partecipazione di 45 euro comprensivo delle tre cene e del fascicolo degli atti, può essere scaricato cliccando qui). 

Nel lavoro preliminare di documentazione e analisi critica, i membri del gruppo «Il Concilio oggi» hanno avuto il sostegno e la consulenza di don Andrea Mangili, direttore dell’Ufficio catechistico della diocesi, e di Enzo Biemmi, membro dei Fratelli della Sacra Famiglia, docente dell’Istituto Superiore di Scienze Religiose di Verona e a Roma presso la Pontificia Università Lateranense. 

Di seguito, vi proponiamo la seconda parte di un’intervista a fratel Biemmi sulle difficoltà e le prospettive della catechesi oggi (la parte precedente è stata pubblicata negli scorsi giorni sul Santalessandro). 

Fratel Biemmi, nel corso della nostra conversazione lei già ha sottolineato come non si possa più dare per scontato che i bambini e i ragazzi oggi ricevano una prima «alfabetizzazione religiosa» nei loro ambienti d’origine. 

«È così. Accogliendo questi ragazzi, le comunità cristiane devono impegnarsi in un’opera di “socializzazione religiosa” che va condotta con sereno realismo, mettendo già in conto che dopo la Cresima molti di loro smetteranno di frequentare la parrocchia. A questa attività dovrebbe comunque accompagnarsi il tentativo di incontrare le famiglie d’origine dei catecumeni: i genitori potrebbero così avere l’opportunità di “riaprire il dossier della fede”, di riscoprire il senso di parole, gesti e pratiche che in precedenza avevano magari archiviato come irrilevanti». 

Lei ha contribuito a un volume edito da Àncora, Fuori dal recinto. Giovani, fede, chiesa: uno sguardo diverso. In queste pagine, si contesta il luogo comune per cui il «primato della soggettività», nella cultura giovanile contemporanea, sarebbe sinonimo di «indifferentismo etico» o di rinuncia alla spiritualità. 

«Per intendere correttamente questa istanza della soggettività, della personalizzazione rispetto a ciò che si fa e si crede, basta considerare un dato di fatto: noi stiamo andando rapidamente verso un cristianesimo “di convinzione” e non più “di convenzione”, non più legato a usanze e opinioni condivise dalla maggior parte della società.  Nell’orizzonte contemporaneo si impone il principio della “libertà religiosa”, della facoltà per i singoli di credere o di non credere: vige una “biodiversità” spirituale, per cui la fede cristiana è vista come una proposta di senso accanto e in alternativa ad altre. Un piccolo esempio: una nipote di cui ero stato padrino di Cresima mi ha chiesto – in occasione di un mio viaggio in Oriente – se potessi portarle una statuetta del Buddha. Mediamente, gli adolescenti e i giovani adulti di oggi non sono superficiali: dal punto di vista spirituale indagano, esplorano, sono in cerca di un significato nella vita».

Il primato attribuito alla dimensione soggettiva non implica però anche dei pericoli? Per esempio, che la ricerca religiosa miri soprattutto a «quello che ci fa stare bene», riducendosi a una sorta di fitness spirituale? 

«I pericoli ci sono. Tuttavia, occorre considerare che anche un cristianesimo “d’autorità” comportava dei rischi, sia pure di segno diverso: in passato, l’aspetto dell’adesione personale al Vangelo era spesso sfocato, relegato in secondo piano.  Indubbiamente, il panorama odierno pone delle sfide alla comunità cristiana. In primo luogo, la induce a essere propositiva: un tempo la gente veniva per conto proprio in parrocchia, perché non c’erano alternative; ora la comunità deve dar prova di un’effettiva attitudine missionaria, deve dimostrarsi capace di interpellare (e anche di sorprendere, direi) chi sta oltre i suoi bordi. Papa Francesco ha parlato di una “trasformazione missionaria” che dovrebbe riguardare tutta la Chiesa: in un certo senso, il presente stato di necessità potrebbe aiutare i cristiani a riscoprire la loro prima vocazione, che è quella di annunciare a tutti il vangelo (già Paolo, nel capitolo 10 della Lettera ai Romani, si domandava come potrebbero gli uomini invocare Dio e credere in Lui, “senza qualcuno che lo annunci”). Ripeto: al di là di qualche illusione percettiva in cui talvolta ancora si cade – soprattutto in corrispondenza di grandi manifestazioni pubbliche -, dobbiamo riconoscere che le comunità cristiane costituiscono una minoranza nella società odierna, e lo saranno ancor più marcatamente in futuro; avrà però un ruolo maggiore anche la componente della libera scelta con cui si decide di appartenere ad esse. Il panorama culturale odierno, con tutte le sue ambiguità e contraddizioni, offre una grande chance a quei cristiani che siano intenzionati a ritornare al nucleo essenziale della loro fede. Non sta finendo il cristianesimo come tale, ma una delle forme che nel corso della storia esso aveva assunto, inculturandosi in una società che però nel frattempo è mutata.  Perciò non bisogna rimpiangere il passato, ma trovare i modi per poter dire qualcosa di significativo agli uomini e alle donne della nostra epoca».

Nell’agosto del 2000, a Roma, rivolgendosi ai partecipanti alla XV Giornata Mondiale della Gioventù, Giovanni Paolo II esortò a guardare alla Chiesa come a un grande «laboratorio della fede». In Fuori dal recinto, lei riprende questa definizione e contrappone una Chiesa-laboratorio a una Chiesa-museo che «non interessa più se non ai collezionisti di ricordi». 

«Parlando del profilo che la Chiesa è chiamata ad assumere, io non intendo la parola “laboratorio” nel senso delle tante iniziative ludiche ed educative che si organizzano negli oratori, con animatori che danno ai bambini la possibilità di dipingere o di cucinare delle torte. In questo caso, chi è responsabile dell’attività ha fin dall’inizio un’idea più o meno precisa di come si debba procedere. La Chiesa nella sua interezza, invece, dovrebbe “tornare in laboratorio”: incontrando i giovani, le famiglie, o chi non proviene da un’esperienza di fede. Non si tratta semplicemente di annunciare il vangelo a queste persone, ma di rileggerlo insieme a loro. Questo, sul presupposto che in tutti agisce una “grazia prima”, anche in chi non appartiene visibilmente alle comunità cristiane». 

Una Chiesa che sappia porsi in ascolto, che si confronti con le situazioni reali degli esseri umani risulterebbe anche più convincente nella comunicazione?

«Sicuramente, ma non è in gioco solo questo, bensì l’opportunità per la Chiesa stessa di imparare a leggere il vangelo in una prospettiva nuova. È ovvio che la comunità ecclesiale debba annunciare il messaggio cristiano; ma mentre lo annuncia, ha la chance di comprenderlo meglio, grazie a un aiuto che le può venire proprio dai destinatari di tale annuncio. L’esortazione apostolica Amoris laetitia offre un esempio chiarissimo in questa direzione, aprendo un vero laboratorio ecclesiale sul tema della famiglia. Da Papa Francesco ci vengono due grandi indicazioni: la prima è che la realtà è più importante dell’idea (si tratta di comunicare il vangelo alle famiglie così come sono, non a quelle del “Mulino Bianco”); la seconda è che occorre avviare dei processi, piuttosto che controllare degli spazi (bisogna camminare a fianco delle persone, secondo il loro passo)».

(2 – fine)