Alberto Porro spiega “Come sopravvivere alla Chiesa cattolica e non perdere la fede”. Manuale tattico e un po’ ironico

Un volume dal titolo provocatorio, dove nelle prime pagine del testo l’autore avverte che non intende certo distruggere un’istituzione della quale afferma: “Sono il più misero dei figli”, ma vuole solo dare qualche consiglio utile per “sopravvivere con leggerezza all’impatto”…

Stiamo parlando di “Come sopravvivere alla Chiesa cattolica e non perdere la fede” (Bompiani 2019, pag. 112, 12 euro) di Alberto Porro, brillante, amaro e rivelatore manuale tattico leggero per chi non sente più battere il cuore quando si parla della Chiesa cattolica.

Ecco quindi una raccolta di 15 consigli pratici (Andare a messa la domenica, Obbedire ciecamente al parroco, Fare “lo scambio della pace”, Fare la carità e così via…), per sventare alcuni gravi pericoli e sopravvivere alla Chiesa “che in teoria sta dalla tua parte ma in pratica ti tollera a malapena”.

Abbiamo intervistato Alberto Porro nato a Milano nel 1958, il quale si occupa di libri e periodici da quasi trent’anni, con una predilezione per l’editoria per ragazzi e il mondo dei bambini, che  insieme a sua moglie e ai loro cinque figli vive in una comunità per famiglie per l’accoglienza nei pressi di Milano.

“Dio del cielo, se mi vorrai amare scendi dalle stelle e vienimi a cercare”. Alberto, per quale motivo ha scelto come esergo del manuale una strofa di “Spiritual”, canzone di Fabrizio De André?

«Perché credo che ci siano dei modi con i quali Dio sta cercando di incontrare le persone ma che quelli che noi crediamo essere i modi giusti probabilmente non lo sono. Quindi bisogna che l’iniziativa sia di Dio: è Lui che mi deve fare vedere che mi sta cercando. La domanda è: “Come fa a farmelo vedere?”».

Come è nata l’idea del pamphlet?

«L’idea della nascita del volume la racconto nelle prime pagine del libro. Ti aspetti di vivere in una comunità che si ispira al Vangelo e che quindi ti offre un posto caldo nel quale ti trovi a casa tua. In realtà quello che incontri è un posto freddo in cui molto spesso sei un ospite non tanto desiderato».

Per quale motivo nell’Indice dei pericoli da sventare ha inserito anche “Sposarsi in Chiesa”, “Mandare i figli al catechismo” e “Parlare con le suore”?

«Proprio perché voglio squinternare, “tirare un sasso in piccionaia” su alcune delle abitudini e su dei costumi che i cristiani ormai da tempo quotidianamente fanno in modo abitudinario senza tanto starci a riflettere su. Sposarsi in chiesa perché è legato alla pompa, al fasto…, senza togliere nulla a tutti coloro i quali credono effettivamente in questo Sacramento. Per quanto riguarda il catechismo, se uno guarda quello che è successo negli ultimi quarant’anni, si deve porre qualche domanda. Ma come? Un castello pedagogico gigantesco costruito su catechismi prodotti direttamente dalla CEI e distribuiti in tutte le parrocchie italiane, hanno prodotto che cosa? Generazioni di ragazzini che dopo la terza media sono scomparsi. A Messa oggi ci sono solo ultrasessantenni. “Parlare con le suore” si riferisce a una certa visione della donna all’interno della Chiesa, quindi a un’immagine che se io rappresentassi a mia figlia di quindici anni ora probabilmente non avrebbe quasi nessun fascino, se non in qualcuno di quei monasteri di clausura nei quali questo aspetto così mistico, eroico e di donazione totale di se stessa o di volontariato forse potrebbero avere un minimo di appeal. Ma sul resto?».

“La Messa è pericolosa perché è ripetitiva e perché andarci è d’obbligo, sennò son cavoli”. Il manuale vuole essere un vibrante invito all’impegno, a una presa di coscienza sulla vita delle nostre parrocchie nelle quali spesso alberga noia e indifferenza?

«Sì, è senz’altro così, è un invito alla responsabilità, soprattutto dei laici, al riscatto del ruolo del laico all’interno di una comunità che non può essere clericale. Questo è il problema, secondo me. Oggi anche questi poveri laici sono lì e aspettano nel nido che qualcuno dall’alto gli dia un po’ di cibo, così almeno possono partecipare anche loro. Chi ha le chiavi, chi è il responsabile di tutta la baracca, come scrivo nel libro, non siamo noi. C’è qualcuno alla sera che chiude le luci, spegne il fuoco, mette fuori l’immondizia, e non sono certo io, laico. Quindi è anche comodo avere dei preti, dei parroci che fanno tutto, tu la sera vai a casa con tua moglie, ti siedi sul divano e magari, ti guardi una fiction. Invece c’è qualcuno che resta lì dentro in Chiesa, chiudendo tutto, come ho detto. Ma è così? Io credo che sia il contrario, e cioè il prete arriva, rimane per anni, semmai trenta, poi se ne va. E se ne va, chi rimane? Rimane la gente che abita lì, quella lì è la comunità, quelle sono le persone che fanno la comunità sul territorio, non il prete. Il prete è un “pezzettino” di questo percorso, di questo cammino che ha fatto insieme ad altri che sono al suo stesso livello. Ma la vera domanda è: Ma i laici l’hanno capita questa cosa? E inoltre: Sono pronti a farsi avanti? ».

“Ma dov’è la comunità in questa parrocchia?”. Come trasformare le nostre parrocchie in vere comunità di accoglienza, aiuto e ascolto?

«Non ho delle soluzioni e né progetti. L’unico progetto nel quale credo, e qui torniamo all’esergo di De André, è: incontro Dio negli altri e questa cosa si chiama comunità. Se con gli altri non ho relazioni significative, probabilmente non vedrò neanche Dio. Quindi mettiamoci tutti insieme, preti, suore, laici, grandi e piccini, tutti sullo stesso piano, attorno a un tavolo dell’oratorio. Chiacchieriamo, parliamo, mangiamo, semmai la prima domenica di settembre. Tutti insieme, ci facciamo questa domanda: “Scusate, secondo voi, oggi, che cos’è la buona novella?” Così vediamo a chi effettivamente bolle qualcosa nel cuore. Questa è la mia proposta ufficiale».