Una rara sapienza

Si parla di morte e di morti. Se ne deve parlare perché, nonostante le aggressioni giovanili da Halloween, i primi giorni di novembre, con le loro feste, resistono. Si può fare goliardia sulla morte, soprattutto mentre si è ancora giovani, ma non la si può cancellare. Ed allora, eccoci qui a ricordare, raccontare, tacere: spesso non si ha nulla da dire, infatti, ma ci si ferma un istante e, appunto, si tace.

Questi giorni abbozzano un movimento circolare. Siamo costretti a pensare a gente che abbiamo perso, a che cosa significa per noi la loro morte. Ma, mentre pensiamo alla loro morte, siamo costretti a pensare anche alla nostra e, nel pensare alla nostra morte, dobbiamo poi chiederci che senso ha la nostra vita di fronte alla morte. Dalla morte degli altri, alla nostra morte, alla nostra vita. Se dovessimo parlare in termini biblici dovremmo dire che siamo invitati a entrare in qualche forma di sapienza che, come noto, non è una somma di nozioni, ma la capacità di valutare le cose e di metterle al posto giusto. La sapienza è un modo di vivere, prima di essere un modo di pensare. E non si può essere sapienti sulla vita se si resta incollati a quello che si è, e non si pensa mai a quello che si sarà.

Semmai, il guaio di questi giorni è che finiscono e con loro finisce anche la sapienza che li accompagna. Si rischia, cioè, di fare esercizio di sapienza solo questi pochi giorni all’anno. L’igiene dell’anima dura troppo poco per essere veramente efficace. Resta la consolazione di pensare che molta gente, per fortuna, fa quell’esercizio a prescindere. A prescindere dai primi di novembre e a prescindere, anche, dall’assillo della morte e dei morti che sono il pensiero dominante delle celebrazioni di inizio novembre.

IL TUO PARERE

Perché si parla così poco della morte?
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