Romero sugli altari. La gente già lo chiama “San Romero d’America”

La notizia ha fatto il giro del mondo ed è rimbalzata su tutti i social network e tantissimi, in ogni dove, hanno gioito e ringraziato il Signore: papa Francesco, il prossimo anno, intende fare beato l’arcivescovo Romero. Lo ha dichiarato ai preti di San Salvador il vescovo José Luis Escobar che ha incontrato recentemente a Roma il Papa.

PAPA FRANCESCO: FARE IN FRETTA

Bergoglio già nell’agosto scorso, nel volo di ritorno dalla Corea, aveva detto ai giornalisti di considerare Romero “un uomo di Dio” e di attendere il risultato del processo che sperava fosse rapido. La questione non è da poco. Certo per l’arcivescovo di San Salvador ucciso sull’altare nel marzo del 1980 dai miliziani della dittatura che aveva messo sotto accusa. Certo per la Chiesa salvadoregna che ha impiegato trent’anni per giungere alla scelta condivisa, da parte dell’episcopato, di firmare e sottoscrivere una lettera per sostenere la canonizzazione. Certo, soprattutto, per i tantissimi cristiani che in America Latina hanno pagato con la vita la loro “scelta dei poveri”. «Il processo – disse sull’aereo papa Francesco – era bloccato per prudenza», ma adesso «è sbloccato» e si tratta di «farlo in fretta», chiarendo «quando c’è il martirio sia per confessare il Credo, sia per fare le opere che Gesù ci comanda, con il prossimo». Una chiarificazione importante «perché dietro di lui c’è Rutilio Grande e ci sono altri che sono stati uccisi». Tra questi anche i gesuiti di cui domenica prossima faremo memoria nel venticinquesimo della loro morte.

Quella notte – era il 16 novembre 1989 – all’Università centro americana di El Salvador vennero assassinati sei gesuiti, la cuoca e la figlia di quest’ultima di soli 16 anni. I nomi dei “martiri gesuiti” come li chiamano un po’ tutti in Salvador, sono scolpiti nel campus, nel punto dove vennero assassinati, chi in giardino, chi trascinato fuori dalla stanza, chi, come le due donne, prese ed eliminate perché non restassero testimoni. Sul terreno, con i volti deturpati dai colpi sparati a bruciapelo, rimasero il rettore Ignácio Ellacuría, il sociologo Segundo Montes, lo psicologo Martín Baró, i teologi e professori Amando López, Juan Ramón Moreno e Joaquín López y López, insieme alla governante Julia Elba e alla figlia sedicenne Celina.

UN VESCOVO FATTO POPOLO

Strano destino quello di mons.Romero. «Un vescovo fatto popolo», lo chiamò padre David Maria Turoldo in una sua celebre poesia. Prima della nomina ad arcivescovo di San Salvador, infatti, Romero era considerato un prelato conservatore, più adatto a studiare in biblioteca che non ad assumere il ruolo di pastore delle anime e dei loro corpi sofferenti. Alla Chiesa salvadoregna, divisa al suo interno, serviva un uomo di mediazione, un vescovo senza troppe passioni per la politica: Romero appariva come il candidato migliore. La sua conversione graduale fu spiegata dallo stesso Romero, nel corso di una chiacchierata confidenziale con il padre superiore gesuita Cesar Jerez, passeggiando a Roma nei pressi della basilica di San Pietro nel 1979: «Ognuno ha le sue radici. Io sono nato in una famiglia molto povera. Ho sofferto la fame, so cosa significa lavorare da bambino. Da quando entrai in seminario e iniziai i miei studi, fino a quando mi mandarono a Roma a finirli, passai anni e anni tra i libri dimenticandomi delle mie origini. Mi feci un altro mondo. Poi tornai in El Salvador e mi diedero l’incarico di segretario del vescovo di San Miguel. Ventitrè anni di parroco li, ancora immerso nelle carte. Poi mi portarono a San Salvador e a Santiago de Maria: li mi scontrai di nuovo con la miseria: con quei bambini che morivano solo per l’acqua che bevevano, con quei contadini che faticavano duramente per ore e ore.  Sa, il carbone che è stato brace… un piccolo soffio e prende fuoco! E non fu roba da poco quello che successe quando arrivò all’arcivescovado Padre Rutilio Grande. Lei sa quanto io lo stimassi. Quando io vidi Rutilio morto pensai: se lo hanno ammazzato per quello che faceva, tocca a me camminare per la sua stessa strada. Cambiai, si, però fu anche un ritorno».  Da quella notte il destino di mons.Romero cambiò radicalmente.

LA VOCE DEI SENZA VOCE

Anni fa, ho incontrato mons. Gregorio Rosa Chavez, vescovo ausiliare di San Salvador, amico intimo di Romero. Gli chiesi che cosa era accaduto nell’animo dell’arcivescovo. Mi rispose che un giorno, in confidenza, glielo chiese lui stesso ed ebbe questa risposta:  «Non direi che sia una conversione ma una evoluzione. Quando ero in provincia guardavo la violenza in modo differente e mia risposta era piuttosto assistenziale ma quando sono venuto come arcivescovo in città ho scoperto la violenza istituzionale,  la violenza strutturale; ho dunque sentito che il Signore mi domandava una risposta più audace perché le sfide erano diverse». Mons.Chavez ha poi proseguito: «Romero ha capito, in quel momento storico particolare, ciò che il Signore gli domandava. Non si è seduto sulla sua idea di Dio ma si è messo in cammino, con una radicale forma di povertà, anche se questo poteva significare un cambio profondo nella sua vita. Certamente la morte di padre Rutilio ebbe un valore significativo. Avvenne poco più di un mese dopo l’inizio dell’episcopato di Romero e per l’Arcivescovo fu un profondo choc. Ricordo che qualche giorno dopo l’assassinio, durante la Misa unica, l’Eucarestia celebrata nella grande piazza davanti alla cattedrale, Romero vide migliaia di persone. Vide il loro sgomento e la loro paura e decise che non poteva lasciarli soli. Scoprì un mondo – quello della politica ufficiale – che a parole voleva l’ordine ma in realtà fomentava il disordine. Mons.Romero cominciò allora a dire cosa pensava di ciò che accadeva. Giornali e televisioni tacevano mentre la gente moriva. Lui divenne la voce dei poveri, dei senza voce».  Una voce che ha pagato con la vita. Il 24 marzo 1980 Oscar Romero, proprio nel momento in cui sta elevando il Calice nell’eucarestia viene assassinato. Le sue ultime parole sono ancora per la giustizia: «In questo Calice il vino diventa sangue che è stato il prezzo della salvezza. Possa questo sacrificio di Cristo darci il coraggio di offrire il nostro corpo ed il nostro sangue per la giustizia e la pace del nostro popolo. Questo momento di preghiera ci trovi saldamente uniti nella fede e nella speranza».  Da quel giorno la gente lo chiama, lo prega, lo invoca come San Romero d’America. Sì, la profezia di Romero, il vescovo fatto popolo, si è realizzata: «Se mi uccideranno – aveva detto – risorgerò nel popolo salvadoregno».