Il paradiso? Lo cerchiamo qui: ma la vita non si risolve nell’attimo che fugge

Cos’è per l’uomo di oggi il paradiso? Cosa significa resurrezione? Come si pone la società contemporanea di fronte alla minaccia della morte? Per inseguire un sogno di eternità basta farsi ibernare, come alcuni vorrebbero? E cos’hanno da dire i cristiani su questo, come lo possono dire? Domande importanti, che toccano l’essenza della vita, il senso della fragilità, l’idea della fine. Con questo dossier proviamo ad offrire alcuni spunti di riflessione.

«Aspettiamo la risurrezione dei morti, e la vita del mondo che verrà. Amen».

Qualche giorno fa, sul Corriere della Sera, si raccontava di un gruppo di nostri connazionali che ha deciso di interpretare a modo proprio le antiche parole del Credo niceno-costantinopolitano. Da single o insieme ai familiari, costoro hanno sottoscritto onerosi contratti con centri statunitensi in cui si pratica la «crioconservazione»: laggiù, dopo la morte, i corpi dei firmatari saranno mantenuti a -196 gradi, sotto azoto liquido, in attesa che gli auspicati progressi della scienza medica consentano di riportarli in vita.

Forse l’uomo del nostro tempo, anche nella sua versione più scettica e irreligiosa, non ha rinunciato a coltivare dei “sogni di immortalità”? Ha ragione Zygmunt Bauman, quando afferma che le agenzie di viaggi e le compagnie aeree tendono oggi ad offrire dei surrogati della vita eterna? «I loro slogan – afferma il celebre sociologo – sono spesso variazioni sul tema dell’immortalità ora, da conseguire istantaneamente, non dopo che saremo morti: visitando una certa località, soggiornando in un particolare resort, assistendo a un concerto rock si può sperimentare da subito ciò che le persone religiose sperano di poter conseguire in un’altra vita». Su questo tema, abbiamo posto alcune domande a Franco Riva, docente di Antropologia filosofica all’Università Cattolica di Milano e acuto interprete delle tendenze/contraddizioni della cultura contemporanea.

Vogliamo incominciare dalla “febbre dei viaggi”? Una delle sue punte coincide con il periodo pasquale.
«Ecco, io credo che si possa prendere proprio l’immagine del viaggio per riflettere su quanto si è capito (o non si è capito) della nostra condizione di esseri umani e della strana inquietudine che ci caratterizza. Un viaggio autentico si distingue perché ci obbliga sempre a compiere un passo più in là, rispetto a ciò che inizialmente eravamo. Che ci si prefigga di esplorare un ambiente naturale, di entrare a contatto con altre persone o di visitare luoghi significativi dal punto di vista spirituale – come avviene nei pellegrinaggi -, non si viaggia veramente senza smentire in parte se stessi, accettando di “andare oltre”. Da questo punto di vista, il viaggio è una metafora della nostra vita che, in generale, non è fatta di conquiste definitive, ma è sempre in movimento, in tensione».

Chi viaggia per davvero non è mai chiuso in se stesso?
«Esatto, in quanto è aperto all’infinito. Io direi che si vive “rispondendo”, che ci si mette in viaggio perché, silenziosamente, si è stati convocati. Il problema per tutti noi, oggigiorno, è che tendiamo a confondere il punto di arrivo con il percorso, a immaginare che ciò di cui siamo in cerca possa essere “qui”, già dato, a nostra disposizione. Nel “qui” non vi è viaggio né vita. Per sporcare le acque e distrarsi, torna anche utile dire che la felicità è in questo o in quel luogo, che tutto può risolversi nell’estasi di un momento; è un discorso ampio, evidentemente, che ci porterebbe a riconsiderare il senso di molti comportamenti collettivi, come il rito dell’happy hour».

O come quello delle “vasche” nelle gallerie dei centri commerciali?
«Sì, la strategia è comunque quella di inchiodare le persone all’“attimo fuggente”, sovraccaricandolo di promesse. Lo sballo del sabato sera, o il rimanere ammaliati per ore di fronte a uno schermo televisivo, sono solo due tra i molti modi con cui si tenta di dimenticare che siamo chiamati ad altro, che non ci è mai dato di rimanere fissati in un punto».

La Chiesa non è però in difficoltà, oggigiorno, nel riproporre l’insegnamento tradizionale sull’aldilà, sulla vita eterna? Pare di notarlo, in certi casi, anche nel rito delle esequie: spesso le omelie sono improntate a un registro vagamente consolatorio; si parla del defunto come di «una stella in più che brilla per noi sulla volta del cielo», si dice che egli continuerà a vivere «nel cuore di chi gli ha voluto bene»…
«A me pare che anche su questo versante – per quanto attiene al linguaggio della predicazione ecclesiale – si possa correre un rischio non troppo diverso, paradossalmente, da quello a cui è esposta la cultura secolare del nostro tempo. Vi è il pericolo di fermarsi, in questo caso limitandosi a ripetere delle parole certo doverose, magari ricche di tradizione, senza però ricordare che il loro scopo è quello di suscitare il senso di una promessa, l’idea di essere chiamati a incamminarci in direzione di un Altro. Il discorso cristiano sull’aldilà, in fondo, ha la funzione di un promemoria: il suo scopo è di imprimere un dinamismo nell’esistenza umana, di rammentarci che il nostro desiderio ci dovrebbe portare a uscire da noi stessi. Tutto questo è ripetuto costantemente nelle pagine bibliche; ed è difficile immaginare che il linguaggio ecclesiale sulla morte e l’aldilà ancora “tenga”, se perde di vista il riferimento alla Bibbia. Per fare un esempio concreto, sul piano pastorale: anche di fronte alla morte, celebrando un funerale, perché non ritornare sulle tante aperture di senso, sulle tante promesse di cui il corso della nostra vita è costellato?»

L’evento della morte, nei suoi aspetti “visibili”, rimane tragico…
«E tuttavia, non è tale da smentire categoricamente la tensione, il movimento che conferisce senso e bellezza alla vita di ognuno di noi. Il male non ha l’ultima parola».

Ritornando ai sogni/deliri di immortalità oggi tanto diffusi: vi sono anche della sacche di “resistenza spirituale” a questa deriva? Intendiamo dire: dei luoghi, dentro e fuori della Chiesa, dove ci si sottrae all’imperativo del godimento immediato?
«Si resiste agli inganni dell’epoca attuale quando si contesta la “tirannia dell’attimo” e l’esistenza diviene memoria vissuta. Mi vengono in mente due luoghi o situazioni, anche sulla base di recenti esperienze personali. Avendo avuto la fortuna di essere ospite dei benedettini olivetani di San Miniato al Monte, a Firenze, ho avuto conferma di un movimento con il quale ci si raccoglie in sé non per restare chiusi, ma per aprirsi in modo diverso al mondo e agli altri. Questo è un esempio “classico”, si capisce. Inoltre, si sfugge all’ossessione del godimento istantaneo quando il presente non è più solo il “proprio tempo”, ma diviene anche il tempo dell’altro, della persona che mi è accanto: il presente si trasforma allora nel tempo dell’incontro, della risposta a una domanda che ci viene rivolta, della condivisione».

Nella foto di apertura: Sainte-Foy Conques, «Giudizio universale», particolare
Qui sotto una scena del film «Avatar» di James Cameron

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Il volume più recente di Franco Riva, edito da Castelvecchi, ha per titolo Filosofia del cibo (pp. 234, € 19.50; disponibile anche in eBook a € 9,49). La lettura di queste pagine offre utili spunti di riflessione, in vista della grande kermesse planetaria di Expo: andando al di là di una serie di pregiudizi e luoghi comuni («ventre affamato non sente ragioni», «l’uomo è ciò che mangia» e così via), Riva mostra come l’esperienza umana costituisca un intero, in cui l’aspetto spirituale e quello corporeo procedono insieme («Mangiare – egli scrive – è una gran cosa. Tutto dell’umano è attraversato dal rapporto con il proprio corpo. Non quale situazione contingente e sfortunata in cui si è precipitati. Non siamo, non siamo mai stati degli angeli decaduti che sono costretti a mangiare per punizione»).