Viloco, Bolivia, una giornata con i cooperanti in miniera: rischiare la vita per un sacco di stagno

Mentre conversiamo, il forte e amaro odore di foglie di coca masticate esce dalla sua bocca e prepotentemente mi invade le narici. È tutto sporco: dalla testa (protetta dal casco) ai piedi (avvolti in resistenti stivali), pare una maschera di fango e polvere. Mi dice che ha cominciato a lavorare alle 7 e proseguirà almeno fino alle 15, senza fermarsi per pranzare, solo inframmezzando il duro lavoro con qualche breve pausa nelle quali, appunto, masticherà un po’ di coca – che attenua la fame e la fatica – alternandola a qualche tiro di una sigaretta condivisa con il suo compagno (un rituale che da queste parti chiamano pik’char). È un giovane “cooperativista minero” presso mina Viloco; estrattore di stagno in tunnel bui, inospitali e spesso fatali a quasi 5000 metri d’altitudine dove l’aria si fa ancora più rarefatta e ogni sforzo viene amplificato.

I cooperativisti possono andare a lavorare quando vogliono, non hanno un contratto, non debbono rispettare orari di lavoro, turni, festività, straordinari. Non debbono nemmeno garantire un quantitativo minimo di materiale estratto al giorno o al mese. In buona sostanza sono autonomi e “liberi” di gestire il loro tempo come meglio credono: più lavorano, più materiale estraggono; più materiale estraggono, più aumenta la possibilità di trovare stagno; più trovano stagno, più guadagnano. Si può lavorare per mesi, battere incessantemente la dura e fredda roccia senza trovare un grammo di minerale; oppure si può lavorare per un paio di giorni e, guidati dalla buona sorte, estrarre abbastanza stagno da garantire il sostentamento mensile della famiglia. Mi spiega che per ottenere un sacco di minerale puro (ossia raffinato e pronto per essere venduto) servono approssimativamente 20 sacchi di materiale impuro (cioè stagno non lavorato e ancora “mischiato” con la roccia).
In quanto gringo e straniero dalla pelle bianca avverto che la mia presenza non sempre è gradita. Del resto, io lì dentro sono solo un turista, un curioso, un ficcanaso: è una realtà che mi preme conoscere – soprattutto come forma di rispetto e lealtà verso queste persone con le quali sto condividendo un pezzetto di vita – ma che non mi appartiene. E in miniera ci si sente stranieri per davvero: tu, l’estraneo, vestito di tutto punto, con abbigliamento termico, la giacca anti-vento che cerchi, in modo un po’ goffo, di sporcare il meno possibile, schivando rocce e camminando quasi in punta di piedi sulla superficie ricoperta d’acqua; tu che punti la pila – indispensabile per muoversi nel buio – verso qualsiasi buco o cunicolo sperando di vederci qualcuno che ci lavora. Loro, i minatori, con gli abiti da lavoro completamente sporchi e malconci; che camminano con la testa bassa per sopportare meglio il peso dei sacchi caricati sulle spalle e riempiti di minerale fino all’inverosimile.
Le reazioni di quelli che incrocio nelle mie “gite” in miniera, in buona sostanza, sono due: c’è chi mi accoglie e si mette cordialmente a chiacchierare approfittando della pausa, magari offrendomi un po’ di foglie di coca da masticare; c’è chi, invece, non riesce a nascondere la sua disapprovazione nel vedermi nel suo ambiente di lavoro e sussurra con voce abbastanza forte perché io possa sentire: «Aquí, en la mina, los gringos no pueden entrar» (“Qui, nella miniera, gli stranieri non possono entrare”) con buona pace del mio accompagnatore di turno che prova a giustificarsi in qualche modo. Sono un corpo estraneo, un ospite non invitato, spesso una presenza sgradita. Mi raccontano che ancora oggi c’è molta superstizione tra i minatori e che, per esempio, i preti non possono entrare in miniera perché “porta male”.

È difficile spiegare cosa si prova entrando in mina: l’unica via che si snoda all’interno della roccia è stretta e spesso talmente impervia da dover stare attenti a dove si mettono i piedi: in alcuni passaggi il vuoto sotto di me raggiunge altezze elevatissime e fa impressione pensare che loro (i minatori) a quelle profondità ci lavorano dopo essersi pericolosamente calati con una corda; senza alcuna via di fuga in caso di crolli e senza alcuna protezione che non sia il casco. In termini filosofici (kantiani in special modo), si potrebbe definire come un’esperienza “sublime”, intesa come situazione al limite, come qualcosa che ti fa sentire piccolo e impotente di fronte alla maestosità della montagna. Ma quello che mi scandalizza nel profondo è il pensiero che lì dentro, in quei buchi tanto inospitali e tanto pericolosi, in 1300 persone rischiano la pelle ogni giorno, sfidando la montagna per 7-8 lunghissime ore di lavoro. Ecco allora che il rituale che in molti ripetono quotidianamente e che etichetto frettolosamente come pura superstizione, non è poi tanto assurdo: prima di mettersi al lavoro la maggior parte dei minatori ch’alla all’altare del Tio, ovvero offre allo spirito protettore della miniera (il Tio, appunto) un po’ di alcool perché sia benevolo e risparmi loro la vita. Pare insensato? Nel dubbio non rischio e offro anch’io il mio bicchierino di rum.

La miniera, per questa gente, non è solo un posto di lavoro come tanti altri; la miniera, per quanto estremamente pericolosa e talvolta fatale, è un luogo sacro, un’appartenenza, una casa. C’è chi, al suo interno, ci passa una vita e chi la vita ce la perde. Tutti la rispettano; nessuno la ama.

In tutta sincerità non credo che esista una persona che di fronte ad uno spettacolo di questo tipo possa dirsi indifferente. Io, ogni volta che la visito, ne esco accompagnato da un senso di profonda ammirazione verso questi anonimi eroi e, al contempo, con un sentimento di enorme tristezza e scoramento. L’unica cosa che riesco a ripetermi è che non è giusto che alcuni nostri fratelli siano obbligati a chiamare “lavoro” il rischio di morire e a chiamare “vita” questa assurda esistenza.