Casa, la pandemia ha cambiato il nostro modo di pensare spazi e confini

Johnny Dotti: "L'essere umano è naturalmente predisposto a vivere in comunità, non nell'isolamento"

«Dai balconi un pezzo di noi. Racconta che fai, racconta chi sei»: sono le parole più o meno distrattamente ascoltate chissà quante volte alla radio, composte durante la pandemia per raccontare un (forse) nuovo luogo di incontro e di comunità. Forse, perché, come, riflette Johnny Dottii balconi sono l’espressione della cultura mediterranea dell’abitare, quella «porta tra dentro e fuori», che da sempre ha contraddistinto il modo di abitare in ogni parte d’Italia, fino agli anni del boom economico, dalle case a ringhiera alle cascine. 

     «La riscoperta del balcone come luogo d’incontro tra vicini di casa dovrebbe prima di tutto far ripensare al concetto di abitare nell’esperienza umanal’essere umano è naturalmente predisposto all’abitare in comunitàcontrariamente a quanto ha fatto credere lo sconvolgimento abitativo degli anni ’50, fatto di appartamenti e isolamento – commenta Dotti, che prosegue – È innaturale pensare che sia umano vivere in un luogo la cui etimologia condivide le radici con quelle di una politica di divisioni e violazione di diritti umani. È strano che si sia combattuto l’apartheid e non si combattano gli appartamenti». Secondo il pedagogista, la questione dell’abitare innescata dalla pandemia è un tema intrinsecamente connesso all’esperienza umana dell’essere e del fare comunità, che, però, paradossalmente, a partire dal Secondo Dopo Guerra e dall’avvento del capitalismo consumista, è stato denaturalizzato e trasformato in una forma di mercato. «Anche quando dal paese si è passati a vivere nell’anonimato della città, le persone hanno instancabilmente cercato di ricreare attraverso i quartiere l’intreccio di relazioni plurali, che altro non sono se non la trasposizione esteriore della molteplicità che ognuno porta dentro di sé, in quanto creati ad immagine e somiglianza di Colui che è unicità e trinità, così come dell’intreccio di storie custodite dal cognome che portiamo». 

Per Dotti il tema dell’abitare è centrale nella vicenda umana perché la casa «è nido e nodo», il luogo della pace, con sé stessi e con gli altri, quello per cui non serve affannarsi, ma imitare gli uccelli del cielo e i gigli del campo, motivo per cui è per lui innaturale che esista una separazione di spazi, ma ancora di più di persone, fatta di porte blindate e case di riposo, da sostituire con nuove, forse, forme di abitare comunitario e, quindi, generativo, «come stiamo provando a fare al Villaggio degli Sposi, dove il progetto è quello di realizzare una comunità in cui eccetto alcuni spazi propri di una famiglia, la vita si trascorra negli spazi condivisi della cucina, dell’orto, dello studentato, degli ambulatori, della comunità per anziani e disabili. Quella che sembra essere un nuovo modello di vita è invece la fine del vivere nella contraddizione dell’isolamento e della separazione, la riscoperta del vicino, che può essere amico e non sempre sconosciuto nemico, la benedizione di un destino comune, anche nella fragilità».