“PRENDERSI CURA”. Intervista a Giuseppina De Simone

Le riflessioni sul tema della cura e della responsabilità delle donne nella Chiesa e nella società tenute nel corso del XLII Convegno Bachelet (Roma, 11-12 febbraio 2022), a partire da Armida Barelli, fondatrice della Gioventù femminile di Azione cattolica, cofondatrice un secolo fa dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, sono state raccolte in uno dei “Quaderni” della rivista “Dialoghi”, con il titolo “Prendersi cura” (Editrice Ave 2023, pp. 120, 14,00 euro) curato da Rosy Bindi, Giuseppina De Simone, Emanuela Gitto e Ilaria Vellani. 

Abbiamo intervistato Giuseppina De Simone, Docente di Teologia presso la Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale Sez. San Luigi e la Pontificia Università Lateranense, direttore dal 2017 della rivista “Dialoghi” trimestrale di attualità, fede e cultura promosso dall’Azione Cattolica Italiana in collaborazione con l’Istituto “Vittorio Bachelet” per lo studio dei problemi sociali e politici, con l’Istituto per la storia dell’Azione Cattolica e del movimento cattolico in Italia “Paolo VI” e con l’Istituto di diritto internazionale della pace “Giuseppe Toniolo”.

  • “La cura”, è la parola d’ordine che Bergoglio ha posto al centro del Suo Ministero. Tutto comincia da qui, dal prendersi cura degli altri, del mondo e del Creato. Come imparare a prenderci cura gli uni degli altri? 

«La cura è essenziale alla vita. E, come il nostro “Quaderno” mette bene in evidenza, della cura c’è bisogno in tutti gli ambiti della vita: da quelli ordinari e quotidiani come la famiglia, l’educazione, l’economia, la cultura, la politica, fino ai luoghi dell’emarginazione. C’è un aspetto della cura, però, che vorrei sottolineare in modo particolare. Imparare a prendersi cura prima di tutto vuol dire mettersi in ascolto, recuperare un atteggiamento di apertura e di umiltà, perché prendersi cura non vuol dire soltanto fare qualcosa ma anche e soprattutto riconoscere che l’altro ha valore e che è ricchezza nella sua diversità. Questo poi rende possibile riconoscere quello che dall’altro ci viene. Soltanto in questa prospettiva, cioè accogliendosi e riconoscendosi reciprocamente nella diversità dei percorsi di vita, delle culture, delle tradizioni religiose, si può recuperare l’atteggiamento di cura. Così anche la cura del Creato richiede, come ripete Papa Francesco molte volte, saper cogliere il valore della biodiversità. Spezzare la logica di un’economia di rapina e di uno sfruttamento delle risorse dell’ambiente, che è nella direzione di una massimizzazione dei guadagni, ma anche nella direzione di una omologazione. Pensiamo al tema delle colture intensive e alla gestione dei bisogni alimentari. Quando si vuole azzerare la diversità in nome di una logica che massifica, è chiaro che la cura viene meno, perché la cura ha bisogno del rispetto e dell’accoglienza dell’altro e della ricchezza di cui è portatore. Questo è quanto mai importante in un mondo che è sempre più preda di una globalizzazione, che schiaccia le differenze creando delle situazioni di sofferenza enorme».

  • Non crede che mai come oggi occorra riprendere l’attitudine a prendersi cura della cittadinanza delle moltitudini? 

«Sì, perché prendersi cura della cittadinanza delle moltitudini significa ancora una volta riconoscere il diritto a esserci, riconoscere che questo mondo è di tutti e tutti dobbiamo poterlo abitare con il nostro patrimonio di valori, di cultura. Chi arriva da un altro Paese non soltanto deve sentirsi accolto, ma deve potersi sentire cittadino fino in fondo, partecipe di una vita comune che è tale perché condivisa e rispetto alla quale si vive una responsabilità attiva. Responsabilità attiva. Se andassimo sempre più verso questa direzione avremmo sempre meno sacche di emarginazione e potremmo sperare in equilibri sociali più sani. Dovremmo interrogarci sull’esplosione della violenza, che avvertiamo con sempre maggiore drammaticità. La cittadinanza delle moltitudini vuol dire che bisogna andare, come spesso ripete il Santo Padre, verso la costruzione di un mondo fraterno nel quale c’è posto per tutti, e che implica non l’essere, ma l’essere gli uni per gli altri. Si tratta di intessere tra le persone, i popoli, le culture, le tradizioni religiose, relazioni che siano relazioni di scambio. La logica deve essere non quella del dominio che crea sacche di marginalità, ma piuttosto quella della pace che porta a valorizzare appieno ciascuno nella sua specificità». 

Armida Barelli (foto Istituto secolare Missionarie della Regalità di Cristo)
  • Armida Barelli è un esempio di persona che ha saputo prendersi cura degli altri? 

«Armida Barelli, recentemente beatificata, è una delle figure femminili più rilevanti nel contesto culturale della prima metà del Novecento. Ancora figura di riferimento per tanti e lo è stata per molte generazioni. Esprime con la sua vita e con la sua storia cosa significhi veramente prendersi cura, perché prendersi cura è una cosa che contagia, ha una valenza generativa e trasforma le persone. Armida Barelli è stata una donna che ha avuto il coraggio di mettersi in gioco superando stereotipi e pregiudizi, andando oltre quegli schemi che inquadravano la figura femminile unicamente in certi ambiti o ruoli. Ha saputo assumersi la responsabilità che ha contribuito alla promozione di tante donne diventate attraverso la Gioventù femminile capaci di prendere parola, di vivere una fede consapevole, matura, nutrita di conoscenza, capaci di vivere la liturgia con una partecipazione che era impensabile a certi livelli. Donne che hanno dato il loro contributo nell’insegnamento, nel sociale, nella vita civile e politica. Donne che hanno contribuito a costruire il nostro Paese». 

  • Al prossimo Sinodo sulla sinodalità, che si svolgerà in ottobre a Roma, parteciperanno e avranno diritto di voto anche 70 “membri non vescovi”, la metà dei quali dovrà essere composta da donne, laiche o consacrate, in rappresentanza delle Chiese locali sparse per il mondo. Un passo in avanti verso l’uguale dignità di donne e uomini nella Chiesa? 

«È una grande novità e un passo in avanti che esprime quello che già nella realtà c’è, cioè la presenza significativa e preziosissima delle donne nella vita della Chiesa. Il cammino di questo Sinodo, che il Papa ha voluto fortemente, sta generando una stagione di cambiamento, di novità e di entusiasmo nella vita della Chiesa, partendo dal basso, dal coinvolgimento delle chiese locali. Abbiamo vissuto un anno di ascolto delle realtà locali e di tutto il popolo di Dio, è stata fatta un’ampia consultazione, non solo interna alla comunità ecclesiale ma che ha visto la comunità ecclesiale mettersi in gioco in un confronto aperto, anche con quelli che hanno preso le distanze dalla fede. Un ascolto che è stato di tutti. “Di tutti, tutti”, ha precisato Bergoglio. Poi si è arrivati alla tappa continentale, che è stata vissuta attraverso le sette assemblee celebrate in diverse parti del mondo, anche lì c’era una rappresentanza di tutto il popolo di Dio, uomini e donne. Questo mettersi in ascolto come popolo di Dio di quello che lo Spirito dice alla Chiesa, ha significato un riemergere del senso della dignità battesimale e della responsabilità che ne deriva. È come se si fosse ritrovato il gusto del senso di appartenenza alla comunità ecclesiale. La novità di questo Sinodo è nell’ampio coinvolgimento del popolo di Dio e questa partecipazione allargata all’assemblea sinodale ne fa memoria».

  • Nel nostro Paese la parità di genere rimane un percorso in salita, con ancora molta strada da fare? 

«Sono stati tanti i passi avanti fatti, ma sono ancora molti gli ostacoli da superare a tutti i livelli e in tutti gli ambiti. Abbiamo un Premier donna, ma l’evento è stato commentato come una novità assoluta, invece dovrebbe essere di per sé un fatto normale, non straordinario. Anche il Presidente della Repubblica Italiana potrebbe essere una donna, perché no? Le donne hanno tanto da dare e da dire. È tanto quello che può venire dal mondo femminile per la crescita del nostro Paese e per la costruzione di quel mondo fraterno di cui parlavamo».