Baby sboom

Uno studio recentemente pubblicato da Eurostat mostra che la Grecia, ad oggi, ha uno dei più bassi tassi di natalità nell’Unione europea (9%). Ciò può indurre alla conclusione, di immediata evidenza, che la crisi economica e la disoccupazione rendono le persone meno disposte alla decisione di avere figli. Nel leggere più in dettaglio lo studio di Eurostat possiamo notare, però, che tassi di natalità ancora più bassi si registrano nella ricca Germania (8,4%). La nostra conclusione deve, quindi, essere corretta. Questi due casi dimostrano che il numero di bambini non è direttamente proporzionale alla quantità di denaro a disposizione. Non sono le società più ricche ad avere il maggior numero di bambini, ma nemmeno – contrariamente ai pregiudizi – quelle più povere. Esiste un rapporto effettivo tra ricchezza e fertilità natale, ma è più complicato.
L’impoverimento della società può indurre le persone a spostare nel tempo la decisione di mettere al mondo un figlio e può persino determinare una propensione all’arricchimento facile e rapido. Se non ci fosse alcuna relazione tra la ricchezza e la fertilità, vorrebbe dire che gli sforzi per investire una maggiore quantità di denaro pubblico nella politica familiare sarebbero privi di senso. Tra la Grecia e la Germania, però, tra la condizione dei Paesi ricchi e quella dei Paesi in difficoltà finanziarie, c’è una grande differenza. La ricca Germania attira i migranti, anche dagli altri Paesi dell’Ue, e l’immigrazione mitiga la depressione demografica. La Grecia, come Lituania, Lettonia, Irlanda, Estonia, Portogallo e Spagna, vivono un più o meno rapido deflusso di popolazione.
Tra gli esseri umani, tuttavia, non solo l’economia svolge un ruolo importante, ma anche la cultura. Nella sua analisi della crisi in Europa, Giovanni Paolo II aveva indicato, come fattore principale, la mancanza di speranza che rende le persone poco disposte a entrare in rapporti duraturi, mentre considerano che la vita non sia un bene che valga la pena trasferire alla generazione successiva. A questo si aggiunge il consumismo come mentalità e stile di vita, orientato al piacere immediato dell’individuo svincolato dalle responsabilità.
Infine, guardando alla cultura popolare, è difficile avere l’impressione che i suoi cosiddetti “creativi” siano molto preoccupati della crisi demografica. Si presenta, piuttosto, ad esempio attraverso i media e la pubblicità, un modello sociale in cui si è rotto il rapporto tra l’amore, che tutti desiderano, e la fertilità, che è invece concepita come una sorta di maledizione, una reliquia scomoda dell’appartenenza dell’essere umano al regno animale, in un processo di liberazione ancora incompiuto e da realizzare al più presto. Nella discussione sulla sessualità, i bambini spariscono o restano in sottofondo, appaiono piuttosto nel contesto della questione della fecondazione in vitro, delle madri surrogate, delle adozioni da parte di coppie dello stesso sesso o della sovrappopolazione e del cambiamento climatico. Sono argomento di discussione come oggetti, insomma, a disposizione degli adulti, del loro piacere o della loro convenienza.
Dagli studi citati di Eurostat emergono, però, anche alcuni dati positivi. Nel corso dell’ultimo anno la popolazione europea è cresciuta da 504,6 a 505,7 milioni di abitanti. Si scopre, d’altronde, che ciò è dovuto principalmente, per l’80%, al flusso d’immigrati. Si deve, tuttavia, notare che, anche se bisogna essere accoglienti nei confronti dei nuovi immigrati, soprattutto provenienti da zone in cui le condizioni di vita sono molto drammatiche, la politica di migrazione e la politica familiare sono cose diverse.
L’Europa sta dunque vivendo una crisi demografica non perché manchino gli immigrati, ma perché gli europei non hanno abbastanza bambini. La migrazione è in grado di alleviare un po’ la crisi demografica, ma non pone un rimedio stabile.
In questo contesto vale la pena riflettere su quanto accade in Turchia, aspirante all’ingresso ingresso nell’Ue, dove il tasso di natalità si è mantenuto a un livello del 17%, e dove ogni anno si aggiunge circa un milione di abitanti, nonostante un lieve deflusso della popolazione. Nel corso di una discussione sulla demografia, un vescovo ortodosso ha chiesto al ministro turco come sia accaduto che nel giro di 100 anni di storia dello Stato turco, il cristianesimo sia quasi scomparso in questo Paese ideologicamente neutrale. Il ministro ha risposto che lo Stato incoraggia ogni famiglia turca ad avere almeno tre figli. I cristiani – ha aggiunto il ministro – purtroppo non seguono la politica del governo. Naturalmente, la risposta non è molto affidabile dal punto di vista storico, tuttavia è una linea interpretativa che va considerata, se il recente appello del cardinale tedesco Meisner si pone nella stessa direzione: “Donne, state a case e fate almeno tre-quattro figli”.
Torniamo al fattore economico. Perché la richiesta di un nuovo impulso demografico possa essere realizzata, abbiamo bisogno di una riscoperta del valore sociale della maternità e del lavoro casalingo. È un paradosso che il lavoro domestico svolto a pagamento da un’estranea lavoratrice, che sia lavandaia, cuoca o baby-sitter, sia considerato appunto lavoro, in quanto retribuito, come ogni servizio, mentre, ove effettuato da una casalinga, dalla moglie, dalla madre, da una donna della famiglia, non valga nulla, dal punto di vista dello Stato. Questo paradosso va sanato. Anche nel caso, e non è un paradosso, a restare a casa sia l’uomo, come pure può accadere nelle nostre società in perenne trasformazione.