La fede del cieco

In quel tempo, Gesù passando vide un uomo cieco dalla nascita e i suoi discepoli lo interrogarono: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?». Rispose Gesù: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio (vedi Vangelo di Giovanni 9, 1-41. Per leggere i testi di domenica 30 marzo, quarta di quaresima, clicca qui).

Gesù incontra un cieco. I suoi amici chiedono di chi è la colpa. L’opinione popolare ritiene che la malattia è legata a una qualche forma di peccato: se uno è malato vuol dire che ha offeso Dio. In realtà, corregge Gesù, il miracolo che egli sta per fare non serve tanto per denunciare i peccati degli uomini ma per manifestare agli uomini il progetto, “le opere” di Dio. Ricordiamo che il miracolo, per Giovanni, è un “segno”, cioè un “dire” concretamente, attraverso una guarigione, una risurrezione di un morto, chi è Dio, che cosa fa per gli uomini, il suo amore per loro.

GUARIGIONE DEL CIECO E PROCESSO

Gesù, dunque, guarisce il cieco. Il racconto è rapidissimo: a Giovanni non interessa il miracolo in sé, ma ciò che il miracolo vuole dire. Gesù fa del fango con la saliva, la spalma sugli occhi del cieco e gli ordina di andare a lavarsi in una piscina che tutti conoscono a Gerusalemme: la piscina di Siloe. Esisteva un’altra credenza popolare che attribuiva una funzione medicinale alla saliva. Gesù fa qui come gli antichi profeti. Non si limita a dire: dice e fa, spiega ciò che ha fatto e fa un gesto che rende concreto ciò che ha detto. Oltre tutto il termine “fango” rimanda abbastanza chiaramente al fango usato di Dio per creare l’uomo. Gesù, in un certo senso, “rifà” la creazione: è un mondo nuovo che comincia. Quando torna dalla piscina di Siloe, il cieco ci vede.

Ma è sabato. Nasce subito una discussione. Gli ebrei, quanto più sono osservanti, tanto più osservavano rigorosamente il sabato come tempo riservato a Dio: il sabato è “proibito” perché riservato a Dio: non si può lavorare e Gesù, facendo il fango e guarendo il cieco, ha lavorato, ha trasgredito il comando del riposo nel giorno di sabato. Per Gesù, invece, quel giorno serve più degli altri per manifestare la gloria di Dio attraverso il miracolo fatto precisamente nel giorno riservato esclusivamente a Dio.

La comunità locale, che si riunisce nella sinagoga, istruisce un processo. Chiamano i genitori dell’uomo guarito. Questi si sentono superati dai fatti e si trincerano in una forma di prudente neutralità. Non sono capaci di andare oltre i fatti che, per loro, non diventano “segni” di qualcosa che sta oltre. Si sta, dunque, delineando, nettamente, l’opposizione tra il cieco che ci vede e i vedenti che sono ciechi: è il senso generale del racconto. Alla fine i farisei cacciano fuori dalla sinagoga il “peccatore” che non riconosce Dio. Lo scomunicano.

DA “VEDO” A “CREDO”

A questo punto, Gesù, che era uscito di scena, rientra. Incontra il cieco nato guarito nel tempio, la “casa di Dio” e gli chiede se crede nel “Figlio dell’uomo”. Il “Figlio dell’uomo” per i vangeli è un essere che viene dal cielo e che lega cielo e terra. Inoltre il Figlio dell’uomo soffre, muore, condannato ingiustamente, ma, insieme, giudica il mondo. E’ un personaggio dal potere incommensurabile. Si capisce che questo titolo designi Gesù come oggetto di un atteggiamento di fede.

Notare: è Gesù che chiede al cieco, lui prende l’iniziativa. Il cieco accetta e adora, esterna, esprime, dice la sua fede. Il prostrarsi era considerato l’atteggiamento tipico del credente di fronte a Dio. Gesù viene quindi riconosciuto Signore, oggetto della fede di colui che era cieco e che ora ci vede e diventa credente.

Gesù trae la conclusione. La presa di posizione di Gesù crea divisione. Tutto si rovescia: chi ci vede è cieco e il cieco è colui che vede davvero.

I farisei hanno ridotto la loro fede a un sapere e quel sapere l’hanno “ingabbiato” nei loro schemi. Non capiscono più che l’Amore non cessa mai di inventare e quindi non capiscono che l’Amore può guarire di sabato e può parlare attraverso la vita oscura di uno che viene da Nazareth. La fedeltà di cui mancano è la fedeltà a un fatto. Sono attaccati a delle idee, ma sfugge loro il presente, l’eterna attualità di Dio.

Quale strepitosa attualità ha questa inattualità della fede ridotta a un pensare… Il cieco, invece, non sa chi è Gesù; sa che cosa gli è capitato e questo gli basta e questo lo porta a credere. All’inizio dice: “Vedo”; alla fine dice: “Credo”.

DIO NEI FATTI

Proviamo a pensare a come è difficile restare fedele a Dio che parla nei fatti, negli eventi della nostra vita. Che cosa significa che Dio mi parla attraverso una malattia, oppure attraverso la nascita di un bambino, o attraverso i drammi o le gioie di tanta gente che vive vicina o lontana? Io sono portato a pensare sempre che Dio non è “lì”, che è altrove… Ma così facevano anche i farisei. L’unico che aveva capito che Dio era lì, fuori degli schemi era il cieco nato, l’unico che, davvero, arriva a credere. Per questo si può anche dire che la vera fede nasce dalla ricerca, non tanto la ricerca intellettuale, dotta, ma la ricerca faticosa di chi sta dentro la vita e non smette mai di essere il ricercatore di Dio. Nel vangelo di Giovanni la prima parola pronunciata da Gesù è una domanda: “Che cosa cercate”, dunque un invito a cercare… Ma Gesù non risolve il problema declinando le sue generalità di fronte a chi chiede chi è lui, dove abita… Semplicemente dice: “Venite e vedete”, ponetevi voi alla ricerca del mio mistero. “Il vangelo è pieno di gente che cerca Gesù mentre egli passa il suo tempo a sfuggire a quelli che pretendono di averlo trovato” (R. Scholtus).