Preti (non) per sempre?

Pubblichiamo volentieri questo contributo del nostro collaboratore che conosce molto bene il mondo ecclesiastico, quello di Bergamo in particolare. Le sue posizioni molto chiare e, come tali, aperte al dibattito. In particolare invitiamo a esprimere un parere sull’affermazione che la vocazione ‘per sempre’ sarebbe sostanzialmente un retaggio di un passato che non si può ricuperare e, inoltre, chiediamo contributi circa il tema dell’immaturità dei preti: è una malattia solo ecclesiastica o è un patologia relativamente condivisa?

Sui “preti che lasciano” esiste una notevole letteratura socio-psicologica. Associazioni di ex-preti quali “Vocatio” o “Sacerdoti lavoratori sposati”, “Preti sposati” hanno i propri siti di discussione sul Web. Il dramma dello loro “transizioni biografiche” finisce sempre di più nell’agorà telematica, nella quale i soggetti del dramma riversano personalmente le proprie storie: prima dal pulpito, poi dal computer…

Qual è è la risposta della Chiesa? La filosofia prevalente è pur sempre quella dell’Enciclica  di Paolo VI “Sacerdotalis caelibatus” del 24 giugno 1967: “…il Nostro cuore si rivolge con paterno amore, con trepidazione e dolore grande a quegli infelici, ma sempre amatissimi e desideratissimi fratelli Nostri nel sacerdozio, i quali, mantenendo impresso nell’anima il carattere sacro conferito dall’ordinazione sacerdotale, furono disgraziatamente infedeli agli obblighi assunti al tempo della loro consacrazione sacerdotale. Il loro lacrimevole stato, e le conseguenze private e pubbliche che ne derivano…”. Diserzione, defezione, infedeltà, tradimento, fallimento, apostasia, stato lacrimevole…: queste le categorie con cui il senso comune ecclesiastico ha sempre giudicato gli ex-preti. Ora, credo che alla Chiesa non si debba chiedere un aggiornamento delle sue analisi socio-psicologiche, ma una revisione della sua elaborazione teologica del profilo del prete, almeno su tre punti.

In primo luogo, quella della vocazione per sempre. Fino al Medioevo, le società erano costituite da “stati” e “ordini” relativamente immobili; il singolo era incatenato al proprio mestiere/professione per tutta la vita. “Vocazione”  (“Beruf” in tedesco, cioè “chiamata-professione”) era il nome nobilitante che si dava al destino socio-professionale, dentro il quale ci si trovava già da sempre imprigionati  per nascita e per esito della lotteria sociale. Il “per sempre” non era una scelta, era una costrizione. L’elaborazione teologica del “sacramento dell’Ordine”, mentre ha reso rigida la gerarchizzazioni tra vescovi, clero e fedeli, ha finito per rispecchiare e sacralizzare una condizione storica determinata. Il concetto di sacramento non porta con sé quello di eternità: sei “sacerdos”, ma non “in aeternum”; sei sposato, ma non “in aeternum”.  Il rapporto dell’uomo con Dio è un incontro revocabile tra due libertà, tra due progetti. L’uomo non è oggetto di un progetto di Dio: anche l’uomo progetta il proprio rapporto con Dio.

In secondo luogo: l’idea di una trasformazione ontologica irreversibile e di una sorta di transustanziazione che il sacramento del sacerdozio opererebbe nell’ordinato è frutto di un indebito tentativo di incapsulare in categorie aristotelico-tomiste l’esperienza del rapporto con Dio. Uno non resta “prete per sempre”, se non vuole più esserlo.

In terzo luogo: non esiste nessun legame concettuale tra il sacramento dell’Ordine e il celibato. E’ stato formalmente sancito dal Concilio di Trento (1545-63), per ragioni assai terrestri; in particolare per impedire la dispersione dei beni ecclesiastici lungo la discendenza dei figli illegittimi, ma numerosi, dei Papi, dei Vescovi, dei preti.

Serve, dunque, un ripensamento teologico della funzione sacerdotale. Purtroppo la teologia è assai più lenta della sociologia a prendere atto della realtà. Ma questa si fa strada da sola.

Non c’è dubbio che il prete oggi, più di ieri, porta sulle spalle il sovraccarico di una “missione impossibile”, di aspettative sovrumane verso di sé che vanno a cozzare contro la sua ontologia reale. Persona reale e missione entrano in contraddizione. Parliamo, a questo punto sì! di celibato. Poiché la struttura di ogni uomo è Logos e Eros, emozione, sentimento, corporeità, sessualità, un prete non è un uomo maturo, se non tiene insieme tutte queste dimensioni. Solo una persona matura può sublimare le pulsioni naturali fino a praticare il celibato. Ora, le ricerche sulla maturità umana dei preti sono decisamente allarmanti. Per Conrad (1971) il 60/70% dei preti manifesta immaturità emotiva; il 20/25% immaturità psichica; solo il 10/15%  è maturo. Indagando sullo sullo “sviluppo umano” dei preti, Kennedy, Heckler, Kobler, Walker (1995) arrivano alla conclusione che l’8% sono “male sviluppati”; il 57% sottosviluppati; solo il 35% sviluppati. Tutto ciò apre il capitolo del ruolo dei seminari.