Su Papa Francesco e chi non lo ama. Intervista con Luciano Manicardi

Sono reduce da una vivace discussione con un prete delle nostre parti. L’oggetto del confronto serrato  è il valore del pontificato di Papa Francesco, nei riguardi del quale il mio interlocutore ha espresso perplessità di varia natura. «Troppo attento a voler piacere a  tutti» e «relativista» sono le due obiezioni maggiormente riprese. Una litania di critiche che – a dire del prete in questione – è ripresa, per lo più a sottovoce, da molti suoi confratelli, spiazzati dalla confusione generata dal Papa nel popolo cristiano che, soprattutto in campo morale, fatica a riconoscere ciò che è giusto da ciò che non lo è. A scanso di equivoci, direbbe un mio amico, è evidente che non tutti i preti la pensano cosi. Però è altrettanto evidente che alcuni di loro assistono con una certa preoccupazione ad un pontificato per certi versi sorprendente. Da una parte dunque il popolo cristiano, e anche una larga fetta di non credenti o diversamente credenti, guarda con attenzione e simpatia questo Papa venuto «dalla fine del mondo», dall’altra le resistenze all’interno della chiesa nei suoi riguardi cominciano a farsi sentire. In particolare, fanno discutere i gesti che papa Francesco continua compiere, gesti che vogliono richiamare «il potere dei segni, non i segni del potere», come amava dire don Tonino Bello.

 IL VANGELO, INNANZI TUTTO

Sono salito a Bose in una magnifica giornata di primavera per parlare di tutto questo con Luciano Manicardi, vice priore della comunità, biblista di valore e acuto osservatore della realtà ecclesiale.

Quali sono le novità a tuo avviso più rilevanti di Papa Francesco?

Sono tante e dopo la promulgazione dell’Esortazione apostolica Evangelii Gaudium  alcune sono anche esplicitate. Il principio di sussidiarietà è chiaramente affermato: Papa Francesco parla di «conversione del papato», afferma  che «anche il papato e le strutture centrali della Chiesa hanno bisogno di ascoltare l’appello ad una conversione pastorale» (32), ricorda della necessità di una “salutare decentralizzazione” (16). Un passaggio va sottolineato: «Non credo che si debba attendere dal magistero papale una parola definitiva o completa su tutte le questioni  che riguardano la Chiesa e il mondo». E’ posta la parola fine ad una chiesa tuttologa, e dunque a figure di prelati che si sentono autorizzati a intervenire su tutto, pretendendo anche di avere la parola definitiva. Inoltre afferma che «non è bene che il papa sostituisca gli episcopati locali nel discernimento di tutte le problematiche che si prospettano nei loro territori» (16); propugna «uno statuto delle Conferenza episcopali che le concepisca come soggetti di attribuzioni concrete, includendo anche qualche autentica autorità dottrinale» (32). Credo che stiamo andando verso una sussidiarietà importante per un governo maggiormente collegiale della Chiesa cattolica. Faccio notare che in una Esortazione per la prima volta sono citate diverse conferenze episcopali nazionali (USA, Francia, Congo, Brasile, India, Filippine; mai  l’Italia). Credo sia positivo anche la sprovincializzazione a cui stiamo assistendo:  l’uscita dall’asfittica atmosfera eurocentrica e italianocentrica. Il Papa che viene dall’Argentina porta al centro le problematiche delle periferie, delle tante periferie. Le problematiche del sud del mondo avranno ormai maggior peso nel ridefinire la geopolitica della Santa Sede. C’è una novità perfino nelle parole.

E cioè?

Le parole che sentiamo e che vediamo nei gesti del Papa, i passi che sta compiendo,  ci parlano di povertà, di misericordia, di perdono, di Vangelo.  C’è una tal quantità di prima volta in questo Papa! Primo Papa non europeo e non mediterraneo, primo Papa che si chiama Francesco, un Papa figlio di immigrati che dall’Italia sono andati in Argentina. Molte diversità e discontinuità di questo pontificato si situano già in questi dati essenziali. Papa Benedetto XVI è un teologo tedesco, al cuore dell’Europa e della vecchia cristianità, un intellettuale; Bergoglio è un pastore che viene dal Sud del mondo, che trova la sua atmosfera vitale tra la gente, in mezzo alla gente. Fa il Papa continuando a fare il prete. Tra gli effetti positivi c’è da annoverare certamente il cambiamento di clima, l’aria nuova e fresca che ora si respira, la scomparsa di quel clima di tensioni e conflitti interni, di sospetti, di accuse, che facevano soffrire molti cristiani. Un clima pesante dovuto al ringalluzzimento degli ambienti più tradizionalisti grazie anche al Motu proprio sulla liturgia e all’attenzione dispiegata (a quale prezzo!) per ricucire lo scisma con la minoranza estremamente esigua dei lefevriani. L’inspiegabile rincorsa nei loro riguardi che ha impegnato energie, tempo, forze, per diversi anni del precedente pontificato per approdare a nulla hanno estenuato e scoraggiato tanti cattolici conciliari stupiti da questi passi indietro della loro Chiesa. Mi pare che tutto questo sia passato.

Cosa significa questo per il cattolicesimo del nostro Paese?

Spero che questo papato abbia conseguenze positive per la Chiesa italiana. L’intreccio con la politica italiana degli ultimi decenni, il progetto culturale, tradotto di fatto da qualcuno come una forma di religione civile, passeranno decisamente in secondo piano. Le parole di ammonimento e l’atteggiamento di distanza del Papa nei confronti dei parlamentari presenti alla messa del 27 marzo scorso in San Pietro dicono di un cambio di rotta. Le parole contro la corruzione, gli interessi di partito, i sepolcri imbiancati suonano come uno spartiacque decisivo. A me sembra che questo Papa stia cercando di ridare dimensione cristiana al cattolicesmo, strappandolo a certe derive strumentali e ideologiche che nella Chiesa italiana ma non solo (si pensi agli USA) non sono mancate.

LA PEDAGOGIA DEI GESTI

Recentemente su “Repubblica” Eugenio Scalfari, a proposito del papa, dice cosi: «Di lui mi sorprende l’assoluta singolarità. Sembra un uomo estraneo a ogni gesto ieratico. La forma è importante. Ma lui ha ridato sostanza al gesto. Con semplicità». Sei d’accordo? Come spieghi questa “pedagogia dei gesti” alla quale Papa Francesco sembra tenere molto?

Questo papa è anzitutto un uomo. Nell’intervista al direttore del Corriere della Sera,  Ferruccio De Bortoli, lo ha anche espressamente dichiarato: «Il Papa è un uomo che ride, piange, dorme tranquillo e ha amici come tutti. Una persona normale». Ovvio che questo provochi qualche contraccolpo sull’immaginario cattolico che non è per nulla abituato a vedere il Papa come uomo normale ma, piuttosto, come Vicario di Cristo in terra. Bergoglio è un uomo che, pur essendo salito al soglio pontificio, non ha rinunciato alla sua umanità, al suo stile di vita. Ha continuato a vivere come viveva prima. Inoltre è un cristiano e non rinuncia alle convinzioni che l’hanno portato ad assumere con tanta nettezza la centralità del Vangelo nella sua vita. Inoltre, non dimentichiamolo, è un gesuita, con una formazione profonda che ha radicato in lui ha vita interiore salda. Infine è un pastore che ha vissuto accanto alla gente, alla gente povera e sa la benedizione che questo significa. La ieraticità, i paludamenti, gli abiti ecclesiastici preziosi, i barocchismi liturgici, gli sono assolutamente estranei.

Un uomo coraggioso, direi…

Certamente. Queste scelte rivelano qualcosa di questo uomo e di questo cristiano. La sua pedagogia dei gesti la leggo all’interno della sua integralità umana. Di lui colpiscono i gesti, semplici, autentici, perché è un uomo che abita il proprio corpo, non è espropriato della sua umanità, dal ruolo così rilevante e autorevole che riveste e che quasi lo obbligherebbe a presentare una figura. L’umano, in lui, prevale enormemente sulla funzione.

Come comprendere i suoi gesti?

Anzitutto con il fatto che egli sa che si annuncia il vangelo con la testimonianza, con la vita. Francesco di Assisi ha detto: Predicate il vangelo e se fosse necessario anche con le parole. Inoltre Bergoglio sa che il corpo parla. Pensiamo solo alla sua insistenza sulla tenerezza. I suoi gesti sono un messaggio. Un messaggio di Vangelo.

Se davvero ascoltassimo Papa Francesco – e non l’immagine che ci piace farci di lui! – tutti saremmo costantemente rimandati al Vangelo, alla gioia che ne scaturisce e alle esigenze decisive per essere cristiani.

 VIVERE IL VANGELO NELLA STORIA

Chiesa povera e chiesa dei poveri. Riuscirà Papa Francesco a portare avanti questa battaglia?

Lo spero. Non sarà facile. Ma questa è ancora un’eredità del Concilio Vaticano II che è stata messa nel dimenticatoio per molti anni. Né posso dimenticare correnti teologiche (i teocon, in particolare) che negli ultimi anni hanno assunto una rilevanza notevole anche per il magistero cattolico, sono giunti, in alcuni loro esponenti, a beatificare il capitalismo come migliore delle forme economiche possibile, perfino fondato evangelicamente. Le parole sul  capitalismo, nell’Evangelii Gaudium di Papa Francesco, vanno in tutt’altra direzione. Non so dire se riuscirà, certo la riforma dello IOR, la trasparenza della banca vaticana, le continue parole contro i corrotti, contro lo strapotere del denaro che fa vittime e ingiustizie, stanno indicando una direzione di marcia. Lo stesso stile sobrio e povero di vita del Papa, il rifiuto di abitare nei palazzi apostolici, la scelta di vestire semplicemente, di salire su un autobus per spostarsi, sono i passi necessari di chi attesta la credibilità del suo parlare di Chiesa povera. Che egli porta nel cuore perché porta nel cuore i concreti poveri che incontra e che ha incontrato.

Dall’ osservatorio di Bose, quali sono, a tuo avviso, le sfide a cui oggi i cristiani e la Chiesa sono chiamati a vivere?

La prima sfida è senz’altro quella dell’ecumenismo. Rappresenta l’impegno che sta di fronte a tutte le Chiese, non solo a quella cattolica. Gli sforzi di Papa Francesco certamente aiuteranno questo cammino.  La sua sottolineatura, nell’Evangelii Gaudium,  della gerarchia delle verità credo sia di una decisiva importanza ecumenica. Si tratta cioè di distinguere, nella fede e nei modo in cui essa si esprime,  ciò che è centrale da ciò che è periferico. Questo principio è importante nel dialogo ecumenico perché troppo spesso l’immagine delle altre Chiese si basa su elementi secondari, che non colgono gli elementi essenziali dell’identità ecclesiale. Ma più profondamente, l’allusione all’esistenza di una gerarchia delle verità contiene un invito a non pensare la rivelazione cristiana come un elenco di proposizioni  vere, che in quanto garantite come rivelate, hanno un uguale valore. La verità cristiana si manifesta nella Parola, nella persona e nella storia di Gesù ed è  in relazione a questo fondamento che tutti gli aspetti della rivelazione devono essere compresi. Credo che per la Chiesa cattolica sia essenziale ripensare l’antropologia: porre maggiore attenzione all’umano, per conoscerlo, assumendo  le acquisizioni che le scienze ci forniscono. Una seconda sfida da raccogliere credo sia il tema della donna nella chiesa, un tema che deve essere liberato dai condizionamenti culturali che l’hanno pesantemente segnato finora. Le tematiche morali sociali e qui penso in particolare all’importantissima questione della famiglia (cui sarà dedicato il Sinodo dei Vescovi del 2014) devono essere affrontate con tutto il bagaglio della tradizione scritturistica e tradizionale cristiano ma anche aprendosi coraggiosamente all’ascolto di ciò che l’antropologia ci dice, proprio per non cadere in posizioni retoriche ma vuote e alla fine inefficaci. Una terza grande sfida che la Chiesa deve raccogliere e che, come dicevo prima, con Papa Francesco sta tentando di fare, è quello di affrontare il nodo della povertà. Una Chiesa che ha rischiato di diventare la cappellania dell’Occidente ricco è una bestemmia. Qui occorrerà immaginazione, creatività, coraggio, le tre dimensioni che a mio parere sono oggi essenziali per agire efficacemente nella storia.

Certo, la povertà della Chiesa è decisivo elemento della riforma della Chiesa. Forse, assieme  al tema della donna, è quello più foriero di cambiamenti radicali.

Comunque, alla fin fine, la sfida dei cristiani e delle Chiese oggi è la stessa di sempre: vivere l’evangelo nella storia. E a questo Papa Francesco ci richiama quotidianamente.