La nuova chiesa dell’ospedale. Bella. Con un piccolo “ma”

È stata inaugurata la nuova chiesa dell’Ospedale. Le cronache ne hanno ampiamente parlato.

La manifestazione è stata una vetrina, nel senso più alto e più vero del termine. Era presente la città, con le sue autorità, quelle che sono state appena insediate e quelle che sono lì da tempo. La città si è presentata all’ospite illustre, il cardinale Bagnasco, presidente CEI, presente anche perché molto “dentro” all’impresa: la CEI ha contribuito in maniera sostanziosa alle spese per la realizzazione della nuova chiesa. Ma mentre la città si presentava a se stessa e al cardinale, il cardinale presentava, con la sua prolusione, qualcosa della Chiesa alla città: il senso della malattia e del dolore, la “sapienza” cristiana dentro l’esperienza del dolore e della morte stessa. Anche in questo la nuova chiesa è apparsa quello che hanno voluto che fosse chi l’ha costruita: luogo-cerniera tra l’ospedale e la città. Mi è venuto in mente che, in francese, ospedale si chiama anche “hôtel Dieu”, l’ostello di Dio. Nato, già nel Medio Evo, spesso a ridosso delle cattedrali era il luogo in cui si ospitavano i malati. Qui a Bergamo è avvenuto il contrario: non si è costruito l’ospedale vicino alla cattedrale, ma si è costruita la chiesa vicino all’ospedale. Ma quello che è uguale è che nell’antico uso medievale e in quello moderno si avverte un misterioso legame fra la sofferenza e il suo senso più alto: la sua apertura verso l’”alto”.

La chiesa nata con questo impegnativo “retroterra” si presenta immediatamente come “bella”. Era l’aggettivo che si sentiva di più. Generico, ma significativo. Il senso di bellezza che la nuova chiesa ispira mi pare sia da ricondurre, in particolare a qualcosa che è suggerito bene dal termine “trasparenza”. Un mondo esterno viene alluso all’interno: sono le molte piante sulle pareti di cemento, nelle “absidi” dietro l’altare che quasi svaporano verso il cielo. Il cemento si alleggerisce anche perché le molte aperture circolari lasciano entrare la luce e “rompono” le alte pareti del grande parallelepipedo. La stessa trasparenza e leggerezza è suggerita dal bellissimo “velario” che circonda e protegge l’esterno della chiesa.

L’unica piccola perplessità riguarda il presbiterio, il luogo della celebrazione. In un ambiente così generoso di spazio si dà poco spazio al cuore della chiesa. L’ambone è quasi incollato all’altare e la sede è molto vicina, essa pure, all’altare. Ci si muove poco su un presbiterio così. In una chiesa così innovativa si è adottato per la liturgia la soluzione più tradizionale. Anche i banchi, così preziosi e così pesanti, confermano il rigore statico degli spazi liturgici.

Non so se anche qui è successo quello che succede spesso: gli architetti non sono liturgisti e i liturgisti non sono architetti. In teoria dovrebbero incontrarsi. In pratica non è sempre facile.