Il “nuovo” Renzi come la Juve di Trapattoni: difesa e contropiede

Chiariamo subito un concetto: Matteo Renzi non è cambiato. E’ sempre lo stesso: veloce, determinato fino alla soglia di una guascona spavalderia. Un uomo che ama essere capito, possibilmente in fretta. Lo si è visto anche in questi giorni, quando ha schiaffeggiato le teste coronate dell’economia e della finanza riunite a Cernobbio andandosene a Brescia ad inaugurare una fabbrica. Meno establishment, più popolo. Populista (nel senso proprio del termine) lo è quasi certamente, popolare lo è di sicuro.

IL NUOVO MODO DI COMUNICARE

E’ mutato invece lo stile comunicativo, ha cambiato verso al cuore del renzismo con una cifra inedita per la biografia di questo animale politico: la cautela, la prudenza. Da scattista a maratoneta: dal tratto rapido, assertivo e talvolta leggero ad un movimento più calcolato, più ragionato. Passo dopo passo, una cosa alla volta. Come è stato scritto da altri, interpreta la Juve di Trapattoni: difesa e contropiede. Un modulo nuovo per il nostro. Ci sembra in questi termini la decisione di varare la strategia dei Mille giorni, dando al governo l’orizzonte lungo fino a maggio 2017: addio all’effetto annuncio, più concretezza, più risultati che i cittadini potranno verificare attraverso il portale <passodopopasso.italia.it>. Una svolta che segna il secondo tempo del governo, diluendo nel corso della legislatura i risultati rispetto all’annunciata rivoluzione di una grandinata di provvedimenti.

Intendiamoci, dopo soli sei mesi di permanenza al governo il bilancio del premier online resta sostanzialmente positivo (gli 80 euro, la riforma in prima lettura del Senato, la Mogherini alla guida della diplomazia europea, più il cantiere riformista in pieno svolgimento), ma probabilmente inferiore alle attese caricate sulle spalle di un politico ritenuto dagli italiani l’ultimo santo a cui votarsi. Non tutto è andato per il verso giusto, ma si può sempre imparare dagli errori compiuti. L’altra faccia della medaglia dice che la ripresa economica prevista dagli esperti non c’è ed è questo quel che fa la differenza: è su questo terreno, su percorsi parecchio scivolosi come la riforma del lavoro che sarà giudicato l’esperimento più innovativo della politica degli ultimi anni. Benché Renzi non ami sentirselo dire, la sua è la prima risposta alla fine della luna di miele e, per certi aspetti, una reazione obbligata, imposta dal principio di realtà: la necessità, cioè, di risistemare le aspettative crescenti, e forse eccessive, dell’opinione pubblica, di tenere insieme consenso e riforme senza ricorrere sistematicamente ai fuochi d’artificio mediatici o al gioco di prestigio verbale.

IL PRINCIPALE AVVERSARIO DI RENZI: SE STESSO

In fondo, inquadrando questo momento storico, uno dei pochi soggetti forti su piazza è Renzi. E come tale deve convivere con la solitudine dei numeri uno e soprattutto deve guardarsi dal suo principale avversario: se stesso. L’impressione è che questa correzione in corso d’opera suoni come una inconfessabile autocritica, ma che contemporaneamente possa anche rivelarsi saggia, proprio perchè al cospetto di un basso profilo che contrasta con il ritmo scoppiettante del Renzi pensiero dove tutto è movimento spiazzante. Lo scenario dei Mille giorni porta con sé l’idea di una maratona che implica una prevedibile perdita di popolarità. <Renzi – ha scritto Stefano Folli sul <Sole 24 Ore> – non può fare affidamento solo su se stesso e sul carisma personale, come è stato nel primo semestre>.

C’è un altro aspetto sottovalutato, che frena il volontarismo del premier, e che è stato spiegato dall’ulivista Arturo Parisi: l’avanzata del leader democratico s’è svolta nell’arena politica, ma il primato conquistato dal premier nella politica non corrisponde al primato della politica nella società e al passo lento richiesto dal governo dei processi sociali. C’è la sensazione che Renzi abbia verificato nel lavoro quotidiano non solo la distanza fra il dire e il fare (da qui la retorica contro il discussionismo e l’annuncite), ma che abbia intuito in tempo la trappola in cui stava per cadere: quella di replicare gli errori addebitati alla generazione che ha rottamato. L’illusione e la realtà con la testa dura si sono messe in competizione. La democrazia del pubblico, dove i cittadini sono spettatori come ad un talk show, fa tutt’uno con la persona del leader legittimata dall’audience. Non è tuttavia un pranzo di gala: lo ha ricordato la politologa Nadia Urbinati su <Repubblica>, sottolineando come Renzi rischi di non riuscire a stare al passo delle proprie parole, là dove il leader stesso è logorato dal nesso intimo con l’audience.

LE RAGIONI DEL CAMBIO DI PASSO

Il cambio di passo del capo del governo, che potremmo definire una rincorsa frenata, può essere un bagno di realismo se la ricerca totalizzante del consenso si umanizza, passando da fine a strumento. C’è un precedente, a proposito di modello tedesco, un tema che oggi va per la maggiore, e riguarda Schroeder. Il cancelliere socialdemocratico varò le celebri riforme del Welfare che hanno rianimato l’allora malato d’Europa, pagando due prezzi: una scissione interna alla sinistra di governo e la mancata rielezione (compensata da un lauto posto alla Gazprom di Putin, ma questo è un altro discorso). Detto in termini impegnativi: la cronaca di questi anni gli ha dato ragione, i suoi elettori di quel tempo no. Renzi, che per nostra fortuna ha detto di non voler imitare la Thatcher, è a questo bivio: investire il consenso trasversale ricevuto nella ricostruzione del Paese, accettando anche gli oneri di una leadership che si vuole plebiscitaria. Del resto la differenza fra il politico e lo statista l’aveva già spiegata De Gasperi: il primo guarda alle elezioni, il secondo alle prossime generazioni.