Stagione di funerali. Le comunità cristiane e le molte occasioni perdute

Quanti funerali! Sarà la stagione, sarà una semplice coincidenza. Un amico prete, parroco di una parrocchia cittadina, mi racconta di averne avuto sei in una settimana. Un altro amico prete, parroco pure lui di una parrocchia cittadina, mi dice di averne avuti sette: record. Tre in uno stesso giorno. Naturalmente, più le parrocchie sono popolose, più il fenomeno aumenta. Seriate è la parrocchia più popolosa della diocesi. Funerali quasi tutti i giorni.

I MOLTI FUNERALI

Dunque i funerali non sono fenomeni marginali nella vita delle parrocchie. Primo perché sono molti, secondo, e soprattutto, perché riguardano comunque il momento cruciale e drammatico della morte.

Il fenomeno va variamente e posatamente giudicato. La percentuale dei funerali religiosi, rispetto al totale dei morti è ancora molto alta, più alta della percentuale dei battesimi rispetto al totale dei nati. Forse si può ipotizzare che l’euforia degli inizi della vita faccia passare in secondo piano tutto, compreso il suo possibile significato religioso. Mentre invece la mestizia della fine si ritrova senza parole significative e chiede alla Chiesa che sia lei a dire e fare qualcosa per quella circostanza. Va anche detto che mentre il distacco dalla Chiesa è più forte nelle generazioni giovani che fanno figli, è minore nelle generazioni anziane e i figli e parenti che perdono i loro cari ne prendono atto, e anche se loro ci credono poco o non ci credono affatto, chiedono comunque la cerimonia religiosa per i loro cari.

Il dato, così sommariamente descritto, pone alcuni problemi alla comunità cristiana.

CELEBRATI MALE

Primo. I funerali sono, mediamente, delle cerimonie deludenti: sono troppi, i preti non hanno tempo di prepararli tutti per bene e si finisce per buttarli lì a qualche modo. È tutto comprensibile, ma niente è giustificabile. La Chiesa perde una straordinaria occasione di evangelizzazione. Evangelizzare la morte è la sfida più provocatoria, infatti. Ma anche la più importante. D’altra parte, va ricordato che al cuore del cristianesimo c’è la croce e quindi la morte, che è vinta dalla pasqua, certo, ma che resta dura e cruda come ogni morte. Ma allora è strano che quando la comunità cristiana deve far giocare la morte del Golgota con la morte di un uomo o di una donna di oggi, manchi di fatto all’appuntamento. Il momento più cruciale viene banalizzato, quello che dovrebbe stare al centro, passa ai margini.

Secondo. Tutti i preti fanno notare che spesso i presenti a un funerale non sanno esattamente cosa stanno facendo. Non si risponde, si sta seduti quando si dovrebbe stare in piedi, non si canta. Una assemblea numerosa che non dice nulla è una contraddizione stridente. La molta gente, infatti, dovrebbe dire molto e invece non dice nulla.

IL CENTRO È GESÙ, NON IL CARO ESTINTO

Bisogna prendere atto che è così. Ma, proprio partendo dal fatto che è così, ci si potrebbe chiedere se non è possibile aggiustare almeno un poco il tiro. Allora, come minimo, sarebbe il caso, anzitutto, di lasciar perdere l’immancabile panegirico al caro estinto (quasi sempre sopra le righe e falso) e puntare invece sul cuore dell’annuncio cristiano. I cristiani si trovano per annunciare che un tale Gesù di Nazaret è morto. È morto così. Poi dopo tre giorni lo hanno incontrato di nuovo. Siamo qui per annunciare questa notizia. E poi vi spiego perché questa notizia interessa il nostro fratello defunto.

Ecco, questo mi sembra potrebbe essere il tragitto giusto per ridare un po’ di dignità a un gesto così importante, con l’omelia, certo, ma anche con qualche piccolo, significativo rito liturgico. In fondo la Chiesa dovrebbe tornare a fare il suo “mestiere”: annunciare Gesù. E dovrebbe con molta attenzione non prestarsi a trasformare il funerale in un pretesto, in cui Gesù che risorge e salva sparisce e al suo posto si mette il defunto che né risorge, né, tanto meno, salva.