Ivo Lizzola: «Il Cre è una lezione di metodo, non bisogna avere paura di offrire esperienze forti»

Quando il Cre lascia davvero traccia in una comunità? Quando diventa un’esperienza significativa per tutti, e non solo un’allegra parentesi estiva? Ne parliamo con Ivo Lizzola, pedagogista, docente, uno degli autori de volume «L’oratorio oggi – 9bis» della ricerca dell’Upee che fa il punto sugli oratori di Bergamo e traccia alcune rotte operative per il futuro. Tra i fattori discriminanti ci sono il progetto educativo, la capacità di dialogare con il territorio, di dare significato alle giornate dei ragazzi senza paura di offrire loro anche esperienze “forti”.

Quando il Cre lascia davvero traccia?
«Può lasciare traccia se non è soltanto un servizio alle famiglie ma se si costruisce come una storia, una riflessione tra le generazioni anche molto vicine di giovani e giovani adulti che pensano ai piccoli o di adolescenti che faranno gli aiuto-educatori. Ci sono diversi livelli di esperienza educativa in un Cre. Bisogna pensare a due progetti educativi: uno per i bambini e i ragazzi ai quali le attività si rivolgono, e uno per gli animatori adolescenti, che vivono una sorta di piccolo rito di iniziazione. Per loro infatti è la prima occasione di responsabilità educativa nei confronti dei più piccoli, e in un rapporto con gli adulti che è fatto di tutela di guida, di primo affrancamento. Avere la forza di reggere entrambi questo progetti non è facile fa la differenza. Un altro elemento decisivo perché un Cre lasci traccia è quello di lasciar entrare la comunità locale e il territorio: le mamme a fare i laboratori, i gruppi di volontariato e altri soggetti: per esempio la casa di riposo, il gruppo alpini che aiuta nel recupero dei sentieri delle colline…»

Perché il dialogo con il territorio è così importante?
«Se c’è questo andirivieni oltre i confini dell’oratorio, allora il Cre ha una fioritura tutta particolare e regge anche meglio l’obiettivo educativo. Un Cre rappresenta una storia particolare dei giovani della comunità e dentro la comunità. E dev’essere anche una specie di piccolo porto franco, di esperienza particolare che non assomiglia né a quella delle società sportive, né all’oratorio “normale” del weekend, ma è proprio un tempo pieno in cui bisogna pensare alla gestione della vita quotidiana e all’invenzione. Anche in questi momenti un po’ fantasiosi la ritualità è sempre molto importante. È possibile inventare un mondo, costruirselo, per poi abitarlo con responsabilità. Il Cre è una prova di mondo, e quando avviene così è bellissimo».

E per la parrocchia che significato ha il Cre?
«Il Cre può rappresentare un momento particolare in cui la comunità si raccoglie intorno ai piccoli e prova a respirare. E si mettono alla prova anche le generazioni giovani quasi nell’occasione di mettere a fuoco il loro tempo, la loro sfida propria, il loro sguardo sul mondo. Gli adolescenti devono incominciare a coltivare la loro vocazione generazionale, devono appropriarsi del tempo in cui vivono e della loro responsabilità che si rivolge sia verso i più grandi sia verso i più piccoli. Il Cre ha questa potenzialità. A Bergamo rispetto ad altri oratori lombardi è più numerosa la presenza degli adolescenti. E si crea anche spesso un rapporto molto ricco e fecondo con le famiglie che si organizzano e diventano risorsa. Anche se dalla ricerca fatta con Ipsos sugli oratori è emerso che molte famiglie lasciano andare i loro figli all’oratorio con riserva. Non danno più carta bianca, anche perché a volte temono la loro fragilità, si sentono esposte. In realtà l’oratorio è un luogo festivo non impegnativo, che non giudica come la scuola, e in particolare il Cre è un tempo liberato dalle preoccupazioni e dalle ansie dei ruoli, in cui gli scambi possono essere più ricchi. E in questo contesto non bisogna dimenticare la sfida più importante, che riguarda comunque gli adolescenti: è l’unica occasione in cui c’è una sorta di leva generazionale, il Cre è l’unico rito di iniziazione che coinvolga un gruppo così ampio di coetanei, anche per questo vale la pena spenderci così tanta energia. Il problema è poi cosa fare di questo impegno, come trovare una modalità altrettanto libera e responsabile per cui questi adolescenti possano continuare a ritrovarsi e a riflettere insieme lungo l’anno.  Il Cre dovrebbe essere una lezione di metodo, non solo un’attività estiva».

Che cosa trovano questi ragazzi al Cre?
«È significativo che molti di loro non siano quelli che abitualmente vanno all’oratorio. Eppure ritengono il Cre un contesto significativo per loro, a cui hanno scelto di partecipare. È un modo per mettersi alla prova. Quindi diventa anche l’occasione giusta per far emergere l’importanza di coltivare certe domande, e testimoniare alcune pratiche di vita, alcuni stili provocatori: gli adolescenti non cercano necessariamente le cose facili, ma che abbiano senso, che offrano la soddisfazione di essere riconosciuti per quello che si portano dentro. L’oratorio è il posto giusto: una comunità di adulti e giovani vivi, impegnati, collegati a loro volta a esperienze significative nel mondo, reti di reciprocità, di cooperazione internazionale. È un mondo che gli adolescenti possono scoprire e trovare davvero buono per loro, al punto da rimanerci».

Va in questo senso anche la possibilità offerta agli adolescenti di vivere un’esperienza di stage professionale all’oratorio?
«Certamente, è un’idea importante che è maturata nel tempo e finalmente ora si realizza. Oltre agli stage sarebbe bello poter potenziare anche le esperienze, che già si fanno, di ospitalità reciproche tra Cre, facendoli diventare, perché no, un po’ itineranti. Due anni fa è accaduto in Val Brembana: c’è stato uno scambio, molto positivo, con Scampia. Non bisogna andare per forza così lontano, ci sono realtà vicine ma diverse e interessanti che possono essere utilizzate per questi scambi. Ed è importante che i giovani delle comunità si presentino con le loro specificità e i loro percorsi ricchi anche ai piccoli di altre parrocchie».

Il Cre è anche un tempo di impegno?
«Chi ha detto che il tempo estivo deve essere solo di gioco? Va benissimo che ci siano le gite a Gardaland ai parchi acquatici. Ma c’è anche il tempo per la riflessione, per esperienze particolari di silenzio. Si può stare fuori anche un paio di notti. C’è chi lo fa da anni, recuperando qualcosa di altre esperienze, come gli scout: la tenda, le stelle…Certo non si può fare con i grandi numeri, bisogna partire con piccoli gruppi. Ma l’estate è anche il tempo di esperienze intense, come i campi di lavoro estivi. Non solo gioco, non solo sport: al Cre ci sono laboratori, visite interessanti, momenti di silenzio, di scambi. All’interno ci possono essere insomma moduli diversi, modellati su esigenze diverse, che poi si combinano tra loro.

Di solito è limitato lo spazio riservato alla spiritualità, che ne pensa?
«I ragazzi durante questo periodo trascorrono all’oratorio l’intera giornata, o almeno il pomeriggio. In questo spazio ampio ci può essere tempo anche per un’esperienza spirituale particolare. Andare in giro per i prati con un pezzettino di Vangelo da leggere, pensarci su e poi scrivere, stendere una lettera impegnativa, inserire insomma nel programma anche piccole pratiche monastiche. Quando si osa farlo si ottengono risultati sorprendenti. Non è new age emotiva, ma una cosa fatta bene, costruita con attenzione, e allora si riscopre il piacere di una preghiera personale. Si possono usare anche le preghiere tradizionali rivisitate. Il Cre può essere il luogo dove si avvia un discorso che poi continua nella routine della comunità».