In molte religioni si parla di divinità che guiderebbero od osserverebbero il mondo dall’alto, da un cielo luminoso e immutabile, senza perturbazioni. Secondo Jürgen Moltmann, invece, «solo nella Bibbia, negli scritti dei Profeti e degli Apostoli, compare un “Dio della speranza”, che sta di fronte a noi e addirittura ci precede. Qui, ci viene annunciato un Dio che non solo “è stato” ed “è”, ma anche “sarà”, come si afferma in Apocalisse 1,4. Proprio per questo abbiamo ragione di sperare nel futuro e di impegnarci nel presente, per il fatto che sappiamo di essere attesi». Nato ad Amburgo nel 1926, teologo evangelico con una spiccata sensibilità ecumenica, autore di opere che costituiscono ormai dei “classici” del pensiero cristiano (ricordiamo anche solo Teologia della speranza, del 1964), Moltmann sarà ospite dell’edizione 2015 del BergamoFestival «Fare la Pace»; in particolare, sabato 9 maggio alle 20 e 45, presso il Centro Congressi Giovanni XXIII, affronterà il tema Pensare la speranza. Credere nel futuro per vivere nel presente, in dialogo con don Massimo Epis, direttore della Scuola di Teologia del Seminario (prenderà parte all’incontro, in qualità di interprete, anche la filosofa Daria Dibitonto; prenotazioni e informazioni sugli altri eventi della rassegna nel sito www.bergamofestival.it).
Professor Moltmann, nei suoi libri lei ha raccontato a più riprese come è divenuto cristiano ed è entrato nella Chiesa evangelica, negli anni successivi alla Seconda guerra mondiale. Potrebbe tornare ancora una volta su questa sua esperienza biografica?
«Sono nato in una famiglia di tradizione protestante, ma in realtà non religiosa. Nel 1943, all’età di 16 anni, fui arruolato nell’esercito tedesco. In quel periodo, assistetti alla distruzione della mia città natale – Amburgo – nell’incendio provocato da un bombardamento dell’aviazione britannica: attorno a me morirono circa trentamila persone. Per la prima volta, fui portato a domandarmi: “Dov’è Dio?” e anche: «Perché io sono rimasto vivo? Perché non sono morto come tanti altri?». Dopo la fine del conflitto, rimasi per tre anni in Gran Bretagna, come prigioniero di guerra. In Scozia, in un campo di lavoro, lessi per la prima volta la Bibbia. Ricordo che fui particolarmente colpito dal testo del Salmo 39: “Mi sono chiuso nel silenzio, ho taciuto anche più del necessario, ma il mio dolore è diventato acuto”. Mi pareva che queste parole venissero dal profondo del mio cuore. Poi, lessi il Vangelo di Marco. Quando giunsi al grido che Gesù emette appena prima di morire (“Dio mio, perché mi hai abbandonato?”), ebbi una certezza: il Crocifisso era il solo che mi potesse capire; egli, il Figlio di Dio, era un mio fratello nella derelizione, ma era anche colui che accompagnava me, prigioniero, verso uno spazio di libertà offerto da Dio. Conquistato da una grande speranza, incominciai a riprendere pure il coraggio necessario per vivere. Da allora, questo senso di comunione con Cristo non mi ha mai lasciato».
Può essere che, per il fatto di non essere nato in un ambiente religioso, lei abbia avuto modo di guardare al Vangelo in modo nuovo, tenendo anche conto della sensibilità del “mondo secolare”?
«Sì, proprio per la mia vicenda personale mi sento a mio agio con molti che si definiscono non credenti. Noto che a tavola, dopo il secondo bicchiere di vino, costoro si lasciano andare e cominciano a pormi tutta una serie di questioni teologiche… Davvero, mi capita di sentirmi più libero di parlare della fede e della speranza cristiane con tali persone, che con gente per autodefinizione religiosa e devota».
Lei si è confrontato ampiamente – e anche criticamente – con le tesi di un filosofo suo connazionale, Ernst Bloch, che perorava la causa di un «ateismo nel cristianesimo»: come a dire che del messaggio evangelico, secondo Bloch, andrebbe mantenuta viva la speranza in un nuovo mondo a venire, radicalmente diverso da quello presente…
«La prima moglie di Bloch, Else von Stritzki, si professava esplicitamente cristiana. Con lei, egli scrisse Spirito dell’utopia, pubblicato nel 1918, in cui compaiono, nella conclusione, le formule relative a una gottbeschwörende Philosophie (una “filosofia che evoca Dio”) e a una Wahrheit als Gebet (una “verità come preghiera”). Nel corso di tutta la sua vita, Bloch tentò di accordare la speranza messianica di cui parla la Bibbia con la speranza marxista nel socialismo. È proprio questo ad avermi affascinato, la sua idea che la religione e il socialismo fossero accomunati dal desiderio dell’avvento del Regno, un Regno che per Bloch consisterebbe in “qualcosa che appare a tutti nell’infanzia e dove nessuno è ancora mai stato: la Patria (Heimat)”. Riguardo all’espressione “ateismo nel cristianesimo”, occorre anche ricordare che l’accusa di ateismo, all’epoca dell’Impero romano, era spesso formulata contro gli ebrei e i cristiani: si rimproverava loro di non credere nelle divinità del mondo naturale, o in quelle ufficiali dello Stato. In termini moderni, potremmo dire che i cristiani sono “atei”, in quanto non credono in Mammona – la divinizzazione del capitalismo – e nemmeno nei dittatori e negli dei che questi prescrivono di adorare. I cristiani conoscono la differenza tra una fede autentica e la superstizione».
Nella nostra epoca, rispetto ad alcuni decenni fa – pensiamo alla “grande marcia su Washington per il lavoro e la libertà”, nell’agosto del 1963, o ai documenti del Concilio Vaticano II -, non è più difficile parlare di speranza? L’“uomo europeo”, perlomeno, non sembra incline alla rassegnazione o al cinismo?
«Questo stato di cose è abbastanza comprensibile: dopo l’incondizionata fiducia del XIX secolo nel progresso, dopo gli entusiasmi suscitati dal fascismo e dal comunismo, dopo gli orrori di due guerre mondiali e la Shoah, si spiega perché gli europei siano esausti e non abbiano più fiducia in un futuro migliore. Oggi, essi chiedono per prima cosa tutele e sicurezza. Tuttavia, bisogna pure che si scuotano, se non vogliono davvero soccombere alla rassegnazione. Da questo punto di vista, una speranza che nasce dall’esperienza della Croce, attraverso la luce della resurrezione, è una speranza fondata e sensata, non una forma di superficiale ottimismo».