Alessandra Arachi: «L’anoressia non è colpa delle madri»

Ci sono la mamma-drago, la mamma-frigorifero, la mamma-pattumiera. Esistono, almeno, sui trattati di psicologia. Lo imparano sulla loro pelle le madri quando le loro figlie smettono di mangiare e incominciano a vomitare di nascosto, e loro incominciano il loro pellegrinaggio negli studi degli psicologi.
Dolore, rabbia, frustrazione: un calvario, che finora nessuno aveva scelto di raccontare da questo particolare punto di vista. A colmare il vuoto ecco «Non più briciole» (Longanesi), della giornalista e scrittrice Alessandra Arachi. Alessandra non si limita a raccontare. I luoghi oscuri dell’anima che descrive, un tempo, erano anche suoi. Ma qui racconta un’altra storia. La sua l’aveva già scritta in «Briciole» vent’anni fa, nel 1994: un romanzo importante, che aveva portato all’attenzione del pubblico il tema dell’anoressia, e che è diventato un tv-movie trasmesso in prima serata su Rai Uno e un long seller di grandissimo successo.
Come mai ha deciso di riprendere il tema dell’anoressia?
«Briciole, il mio primo romanzo, pubblicato 21 anni fa, dove un’anoressica raccontava la sua storia, è cresciuto con me. All’inizio venivano a trovarmi le ragazze con problemi di anoressia, poi sono arrivate sempre più mamme. Le ascoltavo e a un certo punto mi sono resa conto che nessuno dava spazio alle loro voci. E che molti dimenticano che di anoressia si muore».
A quale mamma ha pensato, scrivendo?
«Marta, la protagonista del libro, è una donna molto forte, che non si arrende mai. Non le importa quanti ostacoli deve superare, vuole a tutti i costi salvare la vita della figlia. Anche mia madre è sempre stata molto combattiva e la sua presenza è stata un grande conforto per me. Ho pensato quindi a lei ma anche a tante altre mamme che ho incontrato negli anni. La famiglia che descrivo non assomiglia alla mia, ma all’interno, e soprattutto nel legame tra Marta, la madre e Loredana, la figlia, ci sono la stessa tenerezza e la stessa determinazione».
La famiglia di Marta è «normale»: nessun problema economico, una bella casa, una coppia senza troppi spigoli, un figlio e una figlia che vanno d’accordo e riescono bene a scuola. Eppure Loredana si ammala. Come mai?
«Ai miei tempi, quando mi ammalai io, mi dissero che l’anoressia era la patologia della normalità. Sicuramente è un disturbo enigmatico, chiunque sostenga di conoscerne la causa dice una sciocchezza. Ci sono alcuni studi genetici che indagano su una possibile causa organica, può essere che sia la direzione giusta, ma per ora non si sa. Una cosa posso dirla, però: non è colpa della madre, che è colei che offre il primo nutrimento. Non è lei a generare la malattia mentale. L’anoressia è la malattia mentale che fa il più alto numero di vittime, non è un disturbo da niente. Eppure sembra che manchino i soldi per andare a fondo con la ricerca medica: non è giusto».
Marta, soprattutto all’inizio, si sente smarrita. Da dove si parte per cercare una cura?
“E’ uno smarrimento che provano tutti. A un certo punto Marta dice che gli esperti di disturbi alimentari sono più numerosi dei tifosi del calcio. La strada per curarsi non è la stessa per tutti. Bisogna rimboccarsi le maniche e fare dei tentativi. I primi per Marta e Loredana sono sbagliati ma lei è coraggiosa e non si ferma. Alla fine trova il posto giusto: una struttura pubblica, perché ce ne sono di ottime”.
A un certo punto sembra che a essere malata non sia soltanto Loredana, ma tutta la famiglia.
“Quando succede una cosa del genere tutta la famiglia viene coinvolta. Bisogna inventare da capo un nuovo equilibrio. Non è una passeggiata”.
Come reagiscono le madri che leggono questa storia?
“Molte mi hanno detto di essersi sentite confortate, l’hanno apprezzato perché rompe la solitudine, e perché racconta cose che loro stesse hanno vissuto. Mentre lo preparavo io stessa sono andata a numerose conferenze sui disturbi alimentari e mi è capitato di sentire cose terribili, le stesse che Marta racconta sul libro, e l’ho trovato terribile: sembra che a volte alcuni giochino sulla pelle delle persone”.
Che messaggio si è proposta di lanciare?
“Da un lato questo romanzo è un modo per denunciare la mancanza di cure per questa malattia. Dall’altra ho voluto offrire un messaggio di speranza: si può guarire, anche se il percorso è lungo e non è semplice, e con alcuni disturbi bisogna imparare, semplicemente, a convivere, anche per lungo tempo”.