Gesù, la fede e le situazioni estreme dell’uomo: la malattia inguaribile, la morte di una bambina

Immagine: Müstair, chiesa di San Giovanni,Guarigione dell’Emorroissa, anno 830 circa

In quel tempo, essendo Gesù passato di nuovo in barca all’altra riva, gli si radunò attorno molta folla ed egli stava lungo il mare. E venne uno dei capi della sinagoga, di nome Giàiro, il quale, come lo vide, gli si gettò ai piedi e lo supplicò con insistenza: «La mia figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva». Andò con lui. Molta folla lo seguiva e gli si stringeva intorno (vedi il Vangelo di Marco 5, 21-43. Per leggere i testi liturgici di domenica 28 giugno, tredicesima del tempo ordinario, “B”, clicca qui).

Il vangelo ci racconta due miracoli di Gesù. Viene chiamato da Giaro, uno dei “capi della sinagoga”, perché la figlioletta di questi sta morendo. Mentre sta andando verso la casa di Giairo, una donna malata gli tocca il mantello e guarisce. Gesù riprende il cammino, ma lo avvisano che la figlia di Giairo è morta. Si reca comunque nella casa del capo della sinagoga e risuscita la ragazzina.

LA SPERANZA CONTRO OGNI SPERANZA DI UN PAPÀ: LA SUA BAMBINA STA MORENDO

La sinagoga aveva a capo, di solito, un arcisinagogo: era colui che aveva l’incarico di assicurare il servizio religioso. Era una figura che godeva di grande prestigio ed era affiancato da un consiglio composto da un minimo di tre a un massimo di sette membri. Questi erano chiamati solitamente “capi della sinagoga”. Appena Giairo vede Gesù si getta ai suoi piedi, in segno di riverenza e di rispetto e gli chiede di venire a porre sulla sua figlioletta malata il gesto che, nel mondo ebraico, delegava a svolgere compiti particolari e si pensava trasmettesse anche il dono della salute: l’imposizione delle mani. Giairo è convinto che la figlia solo così potrà guarire. In greco il termine che corrisponde a “guarire” potrebbe essere tradotto anche con “salvare”. Bivalenza – probabilmente voluta – del termine.

LA SPERANZA CONTRO OGNI SPERANZA DI UNA DONNA MALATA: NON RIESCE A GUARIRE

Mentre dunque Gesù sta andando verso la casa di Giairo, entra un scena una donna. È  gravemente malata: soffre di perdite di sangue. Ha tentato molte cure, ha speso molti soldi ma non è guarita. Inoltre quella particolare malattia la rende impura e quindi la donna si trova ad essere doppiamente emarginata: perché malata e perché dichiarata impura dalla legge. Decide allora un gesto che ci appare dettato dalla disperazione: toccare Gesù, nella speranza di ottenere, in quel modo, quello che non è riuscita ad ottenere con i soldi e con i medici. La sua iniziativa deve essere, proprio per la situazione in cui si trova,  “clandestina”. Per questo si deve limitare a toccare, e in maniera molto reticente, il mantello di Gesù. Ma, appena lo ha toccato, succede l’incredibile: la donna si sente guarita. Anche Gesù se ne accorge: dice di aver sentito uscire da sé una forza particolare. Ma non vuole che il suo contatto con la donna si limiti a qualcosa di scaramantico. Parla con lei, si fa raccontare la malattia e, alla fine, dice alla donna che può andare “in pace”. Il “toccare” è diventato segno dell’incontro personale con Gesù. La guarigione è diventata, in qualche modo, salvezza.

Della fede Gesù parla anche nel secondo miracolo. Quando gli annunciano che la ragazzina è morta, dice a Giairo: Non temere, soltanto abbi fede. Quando arriva nella casa del capo della sinagoga, annuncia, provocatoriamente, che la bambina non è morta, ma dorme. “E lo deridevano”, dice il testo. Egli, in realtà, vede la morte come la vede Dio, sicuro che la bambina si risveglierà. Per questo, anche mentre è morta, Gesù dice che sta solo dormendo. Il gesto miracoloso è di una stupefacente semplicità: “Talità kum, fanciulla, io ti dico, alzati!”, dice. La ragazzina si sveglia, viene restituita ai suoi con una umanissima, commovente raccomandazione: “disse di darle da mangiare”.

LO STUPORE

Furono presi da grande stupore, dice Marco a conclusione. Marco ha un vocabolario molto vasto – esattamente otto termini diversi – per indicare lo stupore, la meraviglia, il timore sacro. Non solo reazione psicologica, dunque, ma convinzione di trovarsi di fronte a una precisa manifestazione divina…

LA FEDE TRAGICA DI GIAIRO

Dunque, la fede è il tema portante di tutto il brano evangelico. La fede difficile, provocata. Da una malattia impossibile e logorante, un male che non finisce mai e da una morte prematura, “in diretta”, di una bambina: una vita che quasi non è ancora cominciata. Come a dire: tutto, da un estremo all’altro, sembra dire l’impossibilità di credere.

Credere è difficile, infatti. Pensiamo al tragitto di Giairo: dal momento in cui ha saputo della morte della sua bambina al momento del suo richiamo alla vita da parte di Gesù. Momento tragico: Giairo sa che la bambina, la sua bambina, è morta. Non sa ancora che risorgerà. L’unica sua certezza che gli rimane in quel momento è la parola di Gesù: abbi fede. Dopo arriverà il miracolo, solo dopo.

Abbiamo la sensazione che i miracoli scarseggiano. E quindi, si dice, si ha meno fede. Ma forse è vero il contrario. È proprio perché non abbiamo fede che i miracoli non capitano più. È la fede, la nostra capacità di abbandonarci al Signore, che cambia tutto. In fondo, anche se la bambina non fosse risorta, Giairo poteva comunque contare sull’amicizia incomparabile di Gesù. E quello era l’unico tesoro che nessuno gli avrebbe potuto togliere.