I sindacati. L’egemonia è finita

I BEI TEMPI ANDATI

I sindacati – intesi come Confederazioni CGIL, CISL, UIL, UGL, CONFSAL, come COBAS, come miriade di sindacati autonomi di base (la Camera dei deputati ha 11 sindacati per 1.521 dipendenti, 1 ogni 138 dipendenti!) – continuano ad essere una potenza sociale, economica, politica del Paese. Eppure hanno sempre meno appeal. Squinzi li accusa di essere un freno allo sviluppo del Paese. Alla Camusso, un Ministro ha ricordato che le leggi le fa il Parlamento. Renzi è arrivato ai limiti dello sberleffo: “mandatemi una mail!” e, più seriamente, “basta con la concertazione!”. Questa è sempre stato lo strumento con il quale i sindacati manifestavano il proprio potere: le parti sociali si confrontavano nelle piazze e ai tavoli delle trattative, alla fine si chiudeva il conflitto seduti a un tavolo di governo. Il quale aveva due compiti: trasformare l’accordo tra le parti private in legge dello Stato e perciò valida erga omnes e pagare a pié di lista  – con i soldi di tutti – il costo dell’accordo, in nome della difesa dei posti di lavoro e di industrie, spesso obsolete e fuori mercato. Il meccanismo si è inceppato. La pretesa del sindacato di esercitare un permanente potere di veto sulle decisioni del Parlamento e del governo ha finito per infrangersi sugli scogli della crisi economica e finanziaria, per esaurimento dei “tesoretti”.

Ma assai prima della crisi economica è incominciata una crisi culturale e di egemonia del sindacato, i cui effetti palesi incominciano a dispiegarsi nel nuovo contesto politico renziano.

LE CIFRE INCERTE DEGLI ISCRITTI DI OGGI

Eppure… il numero degli iscritti resta alto, ancorché tutt’altro che certo. La tendenza a gonfiarlo non si è esaurita neppure dopo l’Accordo sulla rappresentanza sindacale del 2012 con Confindustria. Se nel pubblico impiego le cifre sono certe, perché l’ARAN le certifica, non lo sono quelle del settore privato. La CGIL denuncia circa 5 milioni di iscritti, di cui più della metà pensionati: la CISL ne avrebbe poco più di 4 milioni; la UIL quasi 2 milioni. A questi numeri, vanno aggiunti quelli degli altri sindacati.  Secondo alcuni ricercatori, ci sarebbero, alla fine, circa 3 milioni di tessere fasulle. Ancor più opaco è il quadro contabile. Poiché i sindacati sono associazioni di fatto, che hanno sempre rifiutato, come i partiti d’altronde, una regolamentazione statale, pure prevista dalla Costituzione, non sono obbligati a presentare bilanci consolidati e perciò trasparenti, ma semplici rendiconti. I calcoli parlano di circa due miliardi di euro, ricavati in parte dal finanziamento diretto, attraverso gli iscritti, in parte dal finanziamento indiretto (distacchi sindacali, che ammontano a più di quattro mila solo nel pubblico impiego), in parte dai Caf, dai Patronati, dalla Formazione professionale, fortemente finanziati dallo Stato. A questa ricchezza mobiliare si dovrebbe aggiungere quella immobiliare di circa otto mila sedi, alla quale è stato applicato lo stesso trattamento fiscale della Chiesa: i luoghi di culto… sindacale restano esentasse, sono tassati solo quelli adibiti ad altri usi.

Eppure… importante resta il contributo elettorale ai partiti, per lo più di centro-sinistra. La CGIL, in particolare, è parte notevole della constituency del PD.  Si ignorano, al momento, le conseguenze di lungo periodo del clamoroso invito di Susanna Camusso a non votare PD nelle ultime tornate elettorali regionali.

PERCHÉ L’EGEMONIA È FINITA

In realtà, l’egemonia si viene diluendo. E’ effetto, per un verso, di trasformazioni oggettive. Esse rimandano ai mutamenti della struttura produttiva del Paese, alle delocalizzazioni, alla crisi del manifatturiero e alla fine conseguente della classe operaia come soggetto sociale compatto. Con la diminuzione della classe operaia delle grandi e medie aziende, con la sua frammentazione nelle piccole aziende artigianali, con l’aumento dei servizi e la crescente industrializzazione dell’agricoltura, quella classe si è trasformata in una categoria tra le altre. E qui incontriamo l’altra causa della crisi di egemonia: è l’obsolescenza della cultura politica dei sindacati, della CGIL in primo luogo. Nella cultura della sinistra, la classe operaia era il soggetto della rivoluzione o, almeno, del cambiamento: il partito era il cervello, il sindacato era il cuore. Nel PCI imperava la retorica della funzione nazionale della classe operaia. Con tutta evidenza era il surrogato ideologico e, insieme, il depotenziamento dell’antico dogma dei lavoratori quale soggetto rivoluzionario e fondamento della Repubblica, che Togliatti aveva tentato di fare inserire nell’art. 1 della Costituzione, per ripiegare più modestamente sul “lavoro”, quale fondamento, grazie alla mediazione di Dossetti. Questa cultura non è riuscita a prendere atto dei cambiamenti strutturali sopra ricordati. Ancora più profondi, però, sono il lascito culturale e le abitudini della Prima repubblica, di cui i sindacati sono rimasti l’ultimo nostalgico bastione. Predevano una loro collocazione politico-istituzionale, nella quale essi avevano l’ultima parola e il diritto di veto in materia economico-sociale. E se il governo resisteva, era sempre carica l’arma assoluta dello sciopero generale, che faceva tremare i governi o li faceva cadere. L’ultimo baluardo, su cui si è attestata la resistenza sindacale, con significative differenze tra CGIL-UIL da una parte, e CISL dall’altra, è quello della difesa del contratto collettivo nazionale di settore. I sindacati lo difendono, benché siano ormai del tutto prevalenti le ragioni di maggior giustizia sociale e di maggior sviluppo produttivo, che portano alla contrattazione decentrata. Alla quale i sindacati si oppongono strenuamente, difendendo il proprio ruolo, non certo i lavoratori. I quali hanno incominciato ad accorgersene.