Il Sinodo. La posta in gioco

Siamo a metà del percorso sinodale. Comunque vada, la Chiesa sta mostrando una vitalità e una capacità di confronto inimmaginabili fino a poco tempo fa. Alle parole d’ordine, ripetute come un mantra, si è fatto strada, in nome del Vangelo e degli uomini del nostro tempo, un confronto dialettico fecondo e generativo. La strada l’ha di nuovo indicata, con lucidità, papa Francesco nel saluto rivolto ai Padri Sinodali il primo giorno: “Una condizione generale di base è questa: parlare chiaro. Nessuno dica: ‘Questo non si può dire; penserà di me così o così…’. Bisogna dire tutto ciò che si sente con parresia. Dopo l’ultimo Concistoro, nel quale si è parlato della famiglia, un Cardinale mi ha scritto dicendo: peccato che alcuni Cardinali non hanno avuto il coraggio di dire alcune cose per rispetto del Papa, ritenendo forse che il Papa pensasse qualcosa di diverso. Questo non va bene, questo non è sinodalità, perché bisogna dire tutto quello che nel Signore si sente di dover dire: senza rispetto umano, senza pavidità. E, al tempo stesso, si deve ascoltare con umiltà e accogliere con cuore aperto quello che dicono i fratelli. Con questi due atteggiamenti si esercita la sinodalità. Per questo vi domando, per favore, questi atteggiamenti di fratelli nel Signore: parlare con parresia e ascoltare con umiltà’”.
Parresia, il modo diretto e franco con cui i primi cristiani annunciavano il Vangelo. Il Nuovo Testamento impiega spesso questo termine per connotare la predicazione degli apostoli e ne fa una delle chiavi del suo successo nonostante le resistenza degli oppositori.

COSA C’È IN GIOCO

n acuto osservatore delle vicende ecclesiali, Andrea Grillo, teologo e docente di Teologia Sacramentaria al Sant’Anselmo di Roma, scrive che ciò che sta avvenendo in questi giorni al Sinodo è un passaggio decisivo per la Chiesa postconciliare: “Esso riguarda non lo scontro tra chi è favorevole e chi è contrario alla indissolubilità, ma piuttosto la questione di come si possa e si debba assicurare alla indissolubilità una disciplina ecclesiale adeguata”. Come a dire che sulla dottrina evangelica del matrimonio indissolubile la tradizione cattolica è concorde. Nessuno vuole mutare o contestare questa dottrina. Il problema è invece questo: “Come si traduce questa dottrina in una disciplina”? E su questa traduzione le idee sono legittimamente diverse. Con serenità – sostiene il teologo ligure – si dovrebbe quindi riconoscere che vi è una chiara comunione sulla dottrina fondamentale e che vi sono invece disparità di prospettive sul modo con cui questa dottrina deve essere tradotta in disciplina. La vera differenza, dunque, non è tra chi difende la indissolubilità e chi la nega, ma tra diverse forme di traduzione della dottrina evangelica sul matrimonio.

RIDURRE LA TRADIZIONE A DISCIPLINA

Da una parte, infatti, scrive Grillo, “osserviamo, non senza stupore, la posizione rigida e forzata di chi pretende che la dottrina possa essere tradotta soltanto nella disciplina medievale e moderna, che si è espressa quasi solo con una terminologia giuridica e che identifica – piuttosto brutalmente – le parole di Gesù con il ‘matrimonio rato e consumato’. Vi è qui un non piccolo difetto di teologia, una riduzione del piano teologico alla norma giuridica che risulta assai allarmante.”
Da questa lettura, che parla un linguaggio soltanto “normativo” e che risulta pensata e collaudata in un mondo che non c’è più, si desume che la dottrina viene identificata con una sola disciplina possibile. Anzi ad essa viene ridotta: al punto che ogni variante disciplinare – per quanto piccola, temporale o locale essa sia – viene immediatamente sospettata o accusata di “negare la dottrina”. In più, questa posizione dimentica e azzerra l’evoluzione storica che ha fatto sì che la stessa disciplina matrimoniale nel corso dei secoli subisse numerose modifiche e riformulazioni.

TRADURRE LA TRADIZIONE 

Dall’altra parte si dispone chi, sulla scorta della esperienza secolare della Chiesa, sa che alla medesima dottrina possono corrispondere discipline e traduzioni diverse. A questa consapevolezza ci ha condotto, secondo Grillo, la grande stagione conciliare, che ci ha autorizzati a “tradurre la tradizione”. “Il “principio pastorale” del Vaticano II è tutto qui: riconoscersi non solo abilitati, ma obbligati e necessitati a tradurre la tradizione. Tale consapevolezza sa che vi è una tradizione sana e una tradizione che merita invece di essere rivista e riconsiderata. Che la salvaguardia in positivo della “famiglia unita” trova forza e slancio – e non freno e ostacolo – nella misericordia esercitata verso le “famiglie allargate”. Che le “famiglie fedeli”, di fronte alla misericordia ecclesiale esercitata verso le “famiglie prodighe”, non potranno comportarsi come il fratello maggiore della parabola del Padre misericordioso. Che la “legge”, come ogni legge, non è solo “pedagogia di doveri”, ma anche “riconoscimento di diritti”.”

In ogni modo, al di là di ciò che verrà detto nel Sinodo, la strada è indicata, il confronto, non più paludato e nascosto, è aperto. Perché il Vangelo trovi sempre un modo di parlare al cuore di ogni uomo e di ogni donna. Sarà difficile tornare indietro.