Paolo, studente bergamasco a Parigi: «Com’è difficile vivere in una città blindata»

Sono le 23.43 di venerdì 13 novembre. Dopo una serata fuori, distrattamente controllo il cellulare, più per assicurarmi che mia madre non abbia tentato di contattarmi che per verificare la presenza di comunicazioni urgenti, quando, improvvisamente, la festa attorno e dentro di me si spegne. Mi fermo e leggo ad alta voce «ci sono stati tre attentati a Parigi». Resto attonita quando leggo “Paolo conferma di stare bene durante gli attacchi terroristici di Parigi”. Non posso crederci, e velocemente nella rubrica cerco il suo numero, devo sapere cosa è successo ed essere davvero certo che lui stia bene. Compagni di liceo, poi le nostre strade si sono separate, ora lui studia diritto italiano e francese all’Université Paris 1 Panthéon – Sorbone, ma siamo rimasti in contatto tanto che soltanto un anno fa, poco prima degli altrettanto tristi eventi che colpirono Parigi, avevamo scelto di  incontrarci nella capitale francese per respirarne l’atmosfera natalizia, sorridendo del passato e sperando nel futuro. Telegrafica la risposta, ma questo significa che è vivo, non aggiunge spiegazioni, ma in fondo adesso non serve altro. Lascio che passi qualche giorno prima di mettermi di nuovo in contatto lui, voglio capire. Paolo mi manda un audio di 7 minuti, con una lapidaria, ma partecipata, narrazione dei fatti. «Parigi non è la stessa che hai trovato quando ci siamo incontrati qui l’anno scorso. La sera degli attentati mi trovavo in un bar anch’io, come alcune delle vittime, e durante questa festa di compleanno ho ricevuto il messaggio di un’amica che racconta brevemente, in maniera concisa e confusa, che ci sono stati degli spari, particolarmente al Petit Camboge, il ristorante dove ero stato due sere prima. Questo mi ha scioccato. Non sono riuscito a restare calmo per più di un quarto d’ora. Terroristi che si muovono in città. Ho capito che non era il caso che restassi. Paradossale il fatto che quasi nessuno si stesse accorgendo di quello che stava succedendo, di essere vittime potenziali. Sono rientrato in casa con un taxi giusto prima che barricassero anche il mio quartiere, non ti descrivo la scena di angoscia, sembrava un coprifuoco di guerra. Anche io ho aperto le porte ad amici che non sapevano dove ripararsi». Ascolto basita e atterrita le sue parole, ma ho paura anch’io. «Ho provato – continua Paolo – paura e angoscia non solo per me, ma anche per le persone che conosco perché, dico scherzando, neanche al mio compleanno così tante persone si sono interessate a me, c’è stato un movimento di solidarietà enorme. Nei giorni seguenti sono rimasto barricato in casa, ho rinunciato ad uscire dopo aver parlato un amico che in lacrime mi racconta di uno scherzo di pessimo gusto attuato da un idiota di lanciare petardi nei caffè e sui marciapiedi e di essere stato schiacciato dalla folla. Non è una situazione accettabile né sopportabile». Gli chiedo cosa pensa, spera per il futuro. «È giusto reagire ed è quello che stiamo cercando di fare tutti, però penso che ogni reazione deve essere misurata e ragionata. Reagire non significa prendersela con chi non c’entra. È giusto, però, diventare intolleranti con chi è intollerante. Prevenire, però, non vuol dire bombardare, perché questa reazione solleva il popolo, lo fa stare più tranquillo. Ma questo è un problema che ormai riguarda la società. Cerchiamo di capire il perché. Non puoi immaginare cosa significa vivere in una città in stato di guerra. So che sono idee confuse, dettate dai fatti e dalla paura. Tutto questo non è normale per il mondo che conosciamo, ma, a malincuore, credo che dovremo abituarci a questa nuova e diversa realtà. Penso che il futuro dipenda da ognuno di noi. Personalmente, però, non lo vedo positivo, perché gli atti terroristici portano con loro, come risposta, la restrizione della libertà della popolazione».