Silvana De Mari: Hania racconta ai ragazzi il coraggio di lottare per difendere ciò che si ama

Il male non è una condanna ineludibile: «C’è sempre la possibilità di scegliere» è il messaggio di «Hania – Il cavaliere della luce» (Giunti), intenso romanzo per ragazzi di Silvana De Mari, medico e scrittrice di fantasy speciali, nel solco della tradizione di Tolkien. In tempi oscuri come quelli di oggi, questo libro rappresenta un’ottima occasione per parlare dell’attualità ai ragazzi usando il linguaggio di una fiaba.

Com’è nato il personaggio di Hania e il mondo del Cavaliere della luce?
«Tutti i terrificanti totalitarismi del XX secolo hanno sterminato gli “inutili”. Persino all’interno del cristianesimo la tentazione di considerare il bambino drammaticamente diverso come non umano è stata presente, anche se è stata contenuta e si è limitata a essere presente nel mito e nella fiaba.  I bambini affetti da patologie gravi, soprattutto a giudicare dalla descrizione dei sintomi, (quelli affetti da cretinismo ipotiroidismo congenito e quelli affetti da autismo) erano considerati figli del demonio, scambiati con il figlio vero mentre la madre era distratta, oppure da lui concepiti nel ventre di lei. Nel medioevo ed epoche successive si riteneva che un bambino affetto da autismo fosse in realtà scambiato cioè figlio del demonio. Questo atroce incantesimo nel mondo anglosassone è chiamato changeling, e l’ombra è in tutte le fiabe dove esseri malvagi sottraggono alla culla il vero figlio per sostituirlo con un loro emissario».

La vicenda della piccola Hania pone con un linguaggio adatto anche ai più piccoli temi piuttosto importanti: quello della lotta tra bene e male, e quello del libero arbitrio. Ce ne vuole parlare?
«La bambina non parla, non sorride mai e non guarda in faccia la mamma, e per lei è un’angoscia oltre che un motivo di riprovazione: tutti ritengono una colpa la sua maniera di trattare la bambina che è invece l’unica maniera possibile. E perché mai? È una bimba nata, nel romanzo, dall’Oscuro Signore, il “cattivo” di questa storia, ma per metà quella bambina è umano, quindi ha il libero arbitrio. È quello che intuisce la madre della piccola, cui riesce a formare un’etica raccontandole storie di cavalleria. E alla fine la bambina sceglie. Chiunque può fare la scelta giusta, qualsiasi cosa ci sia nella sua storia, nei suoi cromosomi. Noi siamo le nostre scelte».

Hania impara ad amare “nonostante tutto” e il messaggio che arriva ai piccoli lettori è importante: vale sempre la pena di tentare un’impresa, anche se le condizioni di partenza sembrano tutte avverse?
«”Che dite? È inutile? Lo so. Ma non ci si batte nella speranza della vittoria. So bene che alla fine voi mi sconfiggerete. Non importa. Mi batto, mi batto, mi batto”. Edmond Rostand, Cyrano de Bergerac. Questi straordinari versi del Cirano ci ricordano che ci si batte perché è giusto farlo, anche quando tutto è avverso. E alla fine la vittoria arriva, forse non nella stessa generazione, ma arriva».

Tra i motori del romanzo ci sono anche la saggezza e l’intuizione di una giovane madre, Haxen. Quali sono a suo parere i punti di forza di questo personaggio? Da lei arriva un altro messaggio: il male non è sempre quello che crediamo di vedere. Un invito a superare gli stereotipi e le convenzioni?
«Haxen ricalca le scelte della madre di Rankstrail, il protagonista de “L’Ultimo orco”, nato dallo stupro etnico.  In lei c’è il coraggio di tutte le madri che hanno concepito i loro figli nella violenza e nell’odio e che a questi figli hanno dato tenerezza e affetto. Nella storia di ognuno di noi c’è almeno uno stupro etnico.  Su questo piccolo scoglio che è l’Europa innumerevoli eserciti si sono scontrati lasciando dietro di sé una lunga scia di sangue, dolore e lacrime, di morti insepolti che sono marciti sotto nugoli di mosche e il pianto di bimbi figli di padri odiati che però sono stati risparmiati alla vita. Nella storia di ognuno di noi nessuno escluso, c’è almeno un caso di questo totale arbitrio e di questa assoluta compassione».

Che ruolo ha nel suo romanzo la magia, l’elemento fantastico?
«La magia e il fantastico hanno il ruolo di creare la grazia del mito, permettendo alle realtà più crude di essere raccontate restando su un piano di incanto e di permettere un linguaggio universale. Come dice Tolkien noi parliamo di fulmini non di lampadine».

In questa storia la piccola Hania offre una prospettiva diversa e spiazzante sulla realtà. Il suo romanzo è rivolto anche agli adulti, con un messaggio particolare per loro?
«Come ha spiegato Chesterton, perché una storia funzioni, ma anche perché una vita funzioni, perché di notte restiamo svegli per arrivare fino a pagina successiva, perché entri nei nostri sogni, devono esserci tre personaggi: la principessa, San Giorgio, il Drago. Ogni romanzo deve conoscere il principio dell’amore e della battaglia, deve esserci una principessa, l’oggetto da amare e per il quale battersi, deve esserci il drago che la tiene in ostaggio, e deve esserci lui, San Giorgio, che è colui che ama e combatte. La principessa può anche essere il mondo o la terra di mezzo, ma il punto fondamentale è che San Giorgio, o chi per lui, ama e  combatte.  Ed ha ragione Chesterton quando afferma che uno dei più tragici errori della cinica filosofia moderna è che l’amare e il battersi siano stati messi due campi diversi anzi opposti. Non è possibile amare qualcuno senza essere disposto a combattere. Non è possibile combattere se non si ama. Hania nasce chiusa in un silenzio totale e nell’odio per il mondo che ha il compito di annientare. Ha una conoscenza totale della realtà e del linguaggio, ma le mancano le parole amore, amicizia, allegria e compassione che per lei sono solo suoni. La compassione materna di sua madre salva la sua vita e la potenza virile delle narrazioni del Cavaliere di Luce salva la sua anima, perché lei ha un’anima, all’inizio minuscola, che poi cresce e si fortifica e dà rami e frutti, come un albero di melograno nato da un unico grano seminato nel deserto. Hania è aspra, caustica, sarcastica chiusa in una disperata solitudine, priva di qualsiasi suono, da cui riesce a uscire per la forza dall’amore, dell’amicizia, della compassione. Ama, quindi combatte. E diventa creatura umana, dotata di libertà, di libero arbitrio. Quando l’angelo compare davanti ad Adamo ed Eva che hanno mangiato il frutto proibito dice una parola ebraica, timshel. Vuol dire tu puoi. Tu puoi fare. Tu puoi non fare. È la libertà il dono più terribile e più grande. I miei personaggi, Yorsh protagonista de “Il piccolo Elfo” e Hania scelgono, diventano creature umane, creature, di luce e di tenebra che però hanno dentro un anelito eterno verso la felicità e verso il bene. Yorsh e Hania faticosamente conquistano la libertà. E la libertà serve per fare il bene».

C’è anche qualcosa della sua esperienza di medico in questo romanzo?
«Ogni cosa che è stata scambiata tra me e i miei pazienti, parola che include la parola patire, sofferenza, è inevitabilmente finito nella mia scrittura, dal dolore di chi non può essere fiero del proprio padre, al coraggio di tutti coloro che, per quanto infinita potesse essere la notte che li ha circondati da tutti i lati, sono rimasti gli unici capitani della loro anima…»  

Nella sua esperienza di scrittura anche la fede ha un ruolo, come l’aveva in passato per esempio per Tolkien, e se sì qual è?
«Esattamente la stessa che aveva per Tolkien. I miei libri, come i suoi, parlano di Dio e della morte, e contengono nascosti dentro alle volute d’oro e d’argento del racconto fiabesco i valori biblici evangelici, i grandi valori rinnegati nell’aridità e stoltezza di ogni epoca, che in ogni epoca occorre riaffermare».

Sappiamo che la storia di Hania prosegue: può offrirci qualche anticipazione?
«Hania che vive rinchiusa nell’assoluta solitudine scoprirà che la legano alle altre creature umane la capacità di provare dolore e quella di capire la bellezza».