Il processo in Vaticano. I due giornalisti non sono eroi e tanto meno martiri

Foto: Gianluigi Nuzzi è sotto processo in Vaticano, insieme con il collega Emiliano Fittipaldi

I giornalisti Nuzzi e Fittipaldi vorrebbero far credere all’opinione pubblica italiana e internazionale, che al di là delle mura leonine, siamo ancora come ai tempi di Gregorio XVI (1831-1846) che nella sua enciclica “Mirari vos” del 1832 definisce “esecrabile” la libertà di stampa. Vorrebbero cioè farci credere che essi sono stati chiamati a giudizio per aver pubblicato i documenti trafugati in Vaticano da Mons. Vallejo Balda, Francesca Chaouqui e Nicola Maio.

LA LIBERTÀ DI STAMPA NON C’ENTRA

In realtà essi sono accusati non della pubblicazione dei documenti, che secondo la deontologia dei giornalisti è assolutamente legittima, ma di essersi illegittimamente procurati documenti concernenti gli interessi fondamentali della Santa Sede. In parole povere, Nuzzi e Fittipaldi prima del processo non dovevano rispondere alla domanda perché avevano pubblicato quei documenti. Son passati più di 180 dall’epoca di Gregorio XVI e perfino in Vaticano si sa che nei paesi civili vige la libertà di stampa. La domanda del giudice istruttore era su come erano entrati in possesso di quei documenti, domanda perfettamente legittima anche in pieno regime di libertà di stampa. Riesce infatti difficile pensare che gli siano capitati in mano così senza saperlo, come piovuti dal cielo. Ci si può perciò domandare se nel furto e nel trafugamento dei documenti hanno avuto parte in qualche modo anche i due giornalisti, e allora si configurerebbe per loro il reato di associazione a delinquere. Altrimenti l’istruttoria cerca di stabilire se è stata fatta pressione sui tre ladri, tipo ricatto, compravendita, o altro. Una pressione per entrare in possesso di roba rubata farebbe cadere i due giornalisti nella categoria dei ricettatori. Il ricettatore è uno che custodisce la refurtiva a nome del ladro perché il ladro ne faccia uso quando vuole, oppure, è colui che approfitta della merce rubata per fare affari in proprio. Non sono, come si può vedere anche a occhio nudo, domande da poco.

I DUE NON SONO I DIFENSORI DEL PAPA

I due giornalisti sfiorano i limiti dell’impudenza quando affermano di aver fatto questo per amore del Santo Padre e a giovamento della Chiesa. Che la Chiesa possa ricavare un bene da tutto questo è possibile e forse anche certo. Il Concilio Vaticano II, nella Gaudium et spes (44) afferma che “la Chiesa confessa che molto giovamento le è venuto e le può venire perfino dall’opposizione di quanti la avversano o la perseguitano“. Ma le intenzioni dei due si deducono chiaramente dal taglio scandalistico dato alla loro pubblicazione. Una spia di questo atteggiamento è il modo di trattare la questione dell’obolo di S. Pietro, l’offerta che i fedeli fanno liberamente ogni anno il giorno di S. Pietro (29 giungo) a sostegno della carità e dell’attività del Papa. Sia nello scritto che nei dibattiti televisivi i due giornalisti hanno insistito sul fatto che di questo fiume di denaro alla carità verso i poveri va a finire solo una parte molto ridotta.

L’OBOLO DI SAN PIETRO NON È UN FURTO. IL CASO DELL’UNICEF

Proviamo ad esaminare questo aspetto della finanza vaticana paragonandola, ad esempio, con quella dell’Unicef, l’organizzazione dell’ONU per i bambini poveri, ente al di sopra di ogni sospetto. Anche lì arriva un fiume di denaro che si spiega con il semplice fatto che la colletta è fatta su scala mondiale e ha l’adesione generosa di milioni di persone. C’è da dire allora che sarebbe auspicabile che sia per l’Unicef che per la Chiesa il fiume fosse anche più gonfio. Andando a vedere in Internet il bilancio dell’Unicef, si vede che la massima parte del fiume degli introiti va a finanziare la struttura (sede centrale, sedi periferiche, stipendi dei  funzionari e dei dipendenti, parco macchine, campagne organizzative…). Solo attorno al 20% va a finire a sollievo dei bambini.

Si tenga presente che l’attività del Papa, a sostegno della quale va l’obolo di S. Pietro, ha come sede centrale la Curia Romana e ben 180 nunziature sparse nel mondo con relative strutture, stipendi e opere da sostenere (missioni, scuole, ospedali, ecc.). Un’attività immensa a sostegno della quale l’obolo di S. Pietro è solo una voce. Nel dossier riassuntivo dello studio della situazione promosso dal Papa, trafugato dai tre imputati, è detta la percentuale di quello che dell’obolo di S. Pietro va a finire nelle opere di carità. Se sarà emersa l’esigenza di aggiustamenti da fare, è intenzione del Papa di farli; per questo infatti ha promosso la compilazione del dossier. Ma se si gioca scandalisticamente sul fatto che non tutto va direttamente in opere di carità, allora siamo in presenza di vera e propria disonestà intellettuale.

Siamo comunque tutti curiosi di vedere come andrà a finire il processo. Personalmente però sono sicuro che l’ombra di Gregorio XVI non lo sfiora minimante.