«La verità» svelata: al Donizetti il rito di apertura del telero. Da stasera lo spettacolo di Finzi Pasca

Un baule che si apre. Mani che con delicatezza dispiegano, distendono, adagiano, legano. E infine, lentamente, le corde si tendono, il telero si solleva: oggi il rito di apertura dell’opera di Dalì che costituisce la scenografia dello spettacolo «La verità» di Daniele Finzi Pasca si è compiuto in pubblico, davanti a un pubblico rapito e un po’ emozionato. Abbiamo visto il palco in costruzione, come di solito non si può, con la trepidazione di chi è partecipe di un segreto.
La struttura che porta la scenografia, il lavoro attento e pieno di cura del montaggio di un’opera suggestiva, che unisce in sé molti linguaggi dell’arte: quello visivo, ovviamente, quello teatrale, per la scena che rappresenta e il modo in cui lo fa, quello poetico, per la riflessione che contiene, sospesa tra realtà, sogno, ossessione, inconscio. «Quello di Dalì – racconta Elio Grazioli, docente di Storia dell’Arte Contemporanea dell’Università degli Studi di Bergamo – è un telero misterioso, ha una storia avventurosa: è scomparso per riapparire sessant’anni dopo. Illustra uno spettacolo sul Tristano folle messo in scena negli anni ’40 a New York, il balletto Tristan Fou (versione surrealista dell’opera di Richard Wagner) voluto da Dalì stesso e andato in scena il 15 dicembre del 1944». Dopo la rappresentazione, anche a causa della guerra e di diverse vicissitudini, il telero sparisce, lo stesso Dalì ne perde le tracce anche dal punto di vista personale. Riappare soltanto qualche anno fa, nel 2010. «Un altro mistero legato a quest’opera – prosegue il professor Grazioli -è che essa appartiene a una fondazione che vuole rimanere anonima. Strano oggi, quando la visibilità è un comandamento della comunicazione. La fondazione mette a disposizione questo telero della compagnia di Finzi Pasca e glielo fa arrivare sul luogo della rappresentazione». Ha invitato Finzi Pasca a inventare uno spettacolo a partire da questo telero: «Non sarà un Tristano e Isotta, ma un viaggio fantastico nell’opera di Dalì. Per Dalì il Tristano era l’opera dell’amore non consumato. Un suo chiodo fisso, se leggete “La vita segreta” o “Il diario di un genio” i libri della sua autobiografia. L’amore immaginato che è devozione totale, come quello di questi due amanti. Lo ha chiamato Tristan fou perché il nome stesso di questo amore è l’amor fou, un amore folle, come dicevano i poeti medievali che raccontavano questa storia, la storia della morte dell’amore e dell’amore nella morte». È come se l’immagine, ricchissima, contenesse una sorta di riassunto della vicenda: «Molti ritengono che questo telero sia probabilmente il fondale della prima scena – osserva Grazioli -, in realtà dal poco che sappiamo lo spettacolo del ’44 era strutturato in due atti: il primo con l’incontro di Tristano e Isotta nei giardini, a primavera, il secondo all’isola dei morti, in autunno».
La lettura è senza dubbio complessa, i livelli di interpretazione molti: «Ci sono i due personaggi – prosegue Grazioli -, a sinistra Tristano, a destra Isotta. Hanno di particolare questa posizione uno di fronte all’altro, con il collo proteso e il volto sollevato, tentano un incontro che probabilmente non avverrà mai. Accanto ci sono presenze simboliche, come la carriola e il forcone. La carriola viene dall’Angelo di Millet che presenta una coppia di contadini in preghiera, che interrompono il lavoro. Si sentono i rintocchi del campanile all’orizzonte, si mettono l’uno di fronte all’altro, ai loro piedi c’è un cesto. Ma non è certamente una scelta realistica. Come il paranoico bisogna abbandonarsi ai pensieri, alle analogia e non avere paura del delirio che questo può suscitare. Bisogna affidarsi al delirio come metodo di conoscenza irrazionale. Questi due contadini, secondo Dalì stanno pregando sulla tomba del loro bambino morto e intorno a loro ci sono simboli sessuali molto pacati, che quasi non avvertiamo: nel suo fondale li riprende, la carriola, il forcone. Alle spalle di Tristano si vedono dei i cipressi spuntare come dalla spalla. I cipressi dell’Isola dei morti di Böklin, un altro quadro che torna ossessivamente nell’opera di Dalì. I due contadini diventano Tristano e Isotta, ci sono i simboli più ricorrenti in Dalì le stampelle, un sostegno di cui l’uomo ha bisogno, le formiche, il sangue, l’amore è sofferenza ed è legato intrinsecamente alla morte, figure ben selezionate dell’opera di Dalì: il toro, il rinoceronte, l’uovo, il soffione. Il toro. Il metodo critico-paranoico di Dalì svela di più di quanto possa fare un racconto realistico.
Invece di farne un racconto lineare Finzi Pasca nello spettacolo prende spunto da questo metodo di Dalì per realizzare il suo spettacolo di danza, e lo baserà in particolare sull’acrobazia, il circo, il vaudeville, facendo riferimento a forme non nobili del teatro che tuttavia, ed ecco il titolo, «La verità» in qualche modo Finzi Pasca ci sta proponendo come la verità del teatro, della danza, e in qualche modo del Tristano folle del nostro Dalì. Che cos’è l’acrobazia se non il delirio del movimento armonioso della danza? Tutte queste metafore dicono un percorso labirintico nell’irrazionalità e nel metodo di Dalì.