Le rotte dei rifugiati. Ogni scatto una storia: il fotografo Alessandro Penso premiato dal Time

«Il premio di Time, rivista che da sempre dà rilievo nelle sue pagine al ruolo della fotografia, mi rende orgoglioso e premia cinque anni di impegno sul campo, portando alla luce una serie di situazioni, semmai tentando di cambiare lo status quo. Avevo già ricevuto altri riconoscimenti in precedenza, Time ha scelto le mie fotografie premiando un lavoro globale, la mia ricerca costante di andare a cercare singole storie. Per esempio far parlare attraverso la foto una giovane madre siriana che tiene in braccio il figlio neonato in un campo profughi. Ritrarre chi fugge dalla propria patria partendo da una condizione di handicap fisico e scattare una serie di foto a tutti quei ragazzini che scappano soli, senza nessuno. Ho cercato di dare un volto ai numeri che sentiamo ogni giorno in televisione». Alessandro Penso, romano di 37 anni, è stato premiato da Time per la Photo Story of the Year, progetto fotografico dell’anno, per aver raccontato a 360 gradi e per anni il dramma dei profughi e dei migranti in Europa. Il lavoro del fotoreporter si è distinto “per profondità e sensibilità”, infatti “la crisi delle migrazioni nel Mediterraneo è senza dubbio la più importante storia dell’anno e quando si è trattato di scegliere il fotografo che l’ha meglio documentata, un nome si è distinto tra tutti: Alessandro Penso”, ha chiarito Time. «Eppure potrà sembrare strano, ma la fotografia che mi ha colpito di più è stata proprio quella che non sono riuscito a scattare. Tutte le foto non fatte appartengono a quelle situazioni nelle quali sei costretto a mettere via la macchina fotografica, senti che non è il caso di scattare per rispettare alcuni momenti di particolare gravità o sei proprio impossibilitato a fotografare. Però tutte queste immagini mancate restano impresse nella memoria e delineano il pensiero delle foto future» confessa Penso, laureato in psicologia clinica alla Sapienza di Roma, che ha cominciato a fotografare a 27 anni, grazie a una borsa di studio ottenuta nel 2007 alla Scuola di Fotografia e Cinema di Roma.

Alessandro sono cinque anni che lavora sul fenomeno delle migrazioni, ogni anno un Paese diverso, restando sempre entro i confini europei. Com’è nata questa Sua scelta professionale?
«Credo che sia stata una scelta professionale nata dal profondo, dalla mia storia personale e da quella del Paese nel quale sono nato, l’Italia, che è stata nel passato un crocevia di culture. L’Italia è sempre stata una porta verso l’Europa grazie alla sua posizione geografica. Ricordo da piccolo, era l’estate del 1991, le immagini della Vlora nel porto di Bari, la nave mercantile che circa 20 mila profughi albanesi senza permesso di soggiorno, dirottarono per raggiungere il porto pugliese. Cominciai a pormi delle domande, crescendo poi mi è venuta la curiosità di capire chi erano queste persone, da dove venivano, ho quindi iniziato a fotografare per cercare il singolo individuo, al quale secondo me finora era stato dato poco spazio. Le culture che provengono da lontano mi hanno sempre affascinato forse perché ripenso alla storia di mio nonno paterno, il quale da giovane, costretto dalla situazione politica greca di allora, aveva cercato di rifarsi una nuova vita in Italia, quella nuova esistenza della quale io ho beneficiato. Chi è costretto a emigrare perde le proprie radici, le proprie origini, com’è accaduto a mio nonno, quindi ho voluto raccontare questo aspetto, come si sente e cosa prova chi ha perso tutto per fuggire da guerre e carestie e arriva in un Paese straniero in cerca di un futuro migliore».

A Calais ha visto migranti ospitati in campi improvvisati che tentavano di salire sui camion per raggiungere l’Inghilterra. Possiamo considerare i suoi scatti anche una denuncia del modo in cui il Vecchio Continente affronta la situazione dei migranti, dramma umanitario senza precedenti?
«Assolutamente. Quando cerco di dare un’armonia al volto dei profughi, perché non voglio fare delle fotografie stereotipate, tirando fuori la loro umanità, tutto ciò nasconde una critica feroce nei confronti dell’Europa. Per questo le immagini sono tutte racchiuse all’interno del nostro Continente. Queste persone sono dei rifugiati, hanno viaggiato su una rotta pericolosa, molti di loro hanno fatto una richiesta d’asilo, viaggiano semmai attraverso l’Italia per arrivare in un altro Paese europeo. Noi come li trattiamo? Migranti i quali incontrano il primo lembo di una Europa che li respinge, non li accetta, li discrimina, non concede loro nessuna garanzia. Il mio è un lavoro di denuncia verso chi afferma il contrario e verso le politiche europee sull’immigrazione, mi riferisco al Trattato di Dublino».

Una fotografia vale più di mille parole, basti pensare alla tragica immagine del piccolo Aylan di tre anni annegato nei pressi della spiaggia turca di Bodrum, mentre cercava di fuggire dalla guerra in Siria. Balzando sulle prime pagine di alcuni dei principali giornali del mondo la foto che ritrae il suo corpicino esanime sulla spiaggia, è diventata il centro del confronto politico internazionale sulla questione migranti. La migliore propaganda resta sempre la verità come sosteneva Robert Capa?
«Sì, sempre. Riguardo alla foto di Aylan, purtroppo non è la prima che abbiamo visto (ho assistito a molte situazioni simili, ahimè) e credo non sarà l’ultima. Poche settimane prima di quel tragico sbarco erano apparse foto di una barca di migranti che stavano arrivando in Italia, che si era rovesciata al largo della Libia, al mio sguardo erano apparse ancora più forti: si vedevano questi bambini sulla spiaggia che venivano risucchiati dal mare. Quello scatto ha commosso il mondo ma un po’ in ritardo temo, forse la commozione per la foto del piccolo Aylan è arrivata in un momento nel quale i numeri degli sbarchi dei migranti erano altissimi. Nel frattempo i muri anti migranti sono rimasti in piedi e dopo questa foto ne sono stati costruiti altri (Aylan è annegato il 2 settembre 2015, il 15 settembre è stato terminato il muro anti immigrati in Ungheria, la Macedonia sta costruendo un muro, la Slovenia sta costruendo nuove recinzioni), e il tema dell’accoglienza resta più complicato che mai. Dall’altro lato, però, la gente sta prendendo posizione, quando sono tornato lo scorso ottobre nell’isola di Lesbo ho visto moltissimi volontari provenienti da molte parti d’Europa, dalla Norvegia per esempio, associazioni cattoliche e non, che si davano da fare. Mai avevo assistito in tanti anni di lavoro a questo tipo di fenomeno. L’opinione pubblica europea sta prendendo coscienza, siamo un po’ pigri nel Vecchio Continente, vediamo come andrà dopo i fatti di Parigi, c’è da dire che spesso la politica sfrutta la paura dei cittadini. Inoltre qui in Italia c’è un gap tra l’informazione sul web, più libera e indipendente, e quella della televisione, più “pilotabile”. Quando accendo la tv, assisto a dei programmi che più che fare informazione fanno propaganda per determinati partiti politici».

Tanti giovani migranti, spesso minorenni in fuga dai loro Paesi d’origine cercano di entrare nell’UE semmai via terra oltre che per mare dalla Grecia, fantasticando sull’European Dream. Possiamo definire questi giovani come appartenenti a una “generazione perduta”?
«Ho dedicato un lavoro in Grecia dal titolo “Lost generation”, che voleva essere provocatorio per stimolare domande. C’erano ragazzi che vivevano in condizioni disperate, infatti, i migranti minorenni sono l’anello debole della catena, che perdono gli anni migliori della loro vita cercando un’accoglienza migliore, desiderando semmai di andare a scuola. La domanda quindi, che a mia volta rivolgo a chi osserva le mie foto, è la seguente: “Non è che in questo modo stiamo perdendo una generazione?”».

Tra le tante esperienze vissute in prima linea ha viaggiato sulle navi di soccorso di Medici Senza Frontiere e si è recato sulle spiagge di Kos e Lesbo in attesa dei profughi che attraversavano l’Egeo in condizioni disperate. Tutte “periferie esistenziali”, secondo la definizione di Papa Francesco che ha voluto compiere il suo primo viaggio apostolico a Lampedusa. Che cosa ne pensa?
«Sì, molto bella e veritiera la definizione di Papa Francesco, ho visitato e scattato fotografie di molte “periferie esistenziali”. Del resto Bergoglio ha sempre speso molte parole significative nei confronti dei migranti, perché questi ultimi, secondo la definizione dello stesso Pontefice “sono persone in fuga bisognose di tutto” e “respingerli è un atto di guerra”. Se la costante politica d’accoglienza e di misericordia di Papa Francesco nei confronti dei migranti colpisce, esorta e commuove l’opinione pubblica, sono i leader europei però a doversi fare carico di questo dramma umanitario. È da loro che attendiamo una risposta fattiva, perché i rifugiati non hanno bisogno soltanto di carità, occorre fornire loro i mezzi per ricominciare una nuova vita».