Un silenzio complice. La fuga dei cristiani dal Medio Oriente

Foto: Il Medio Oriente rischia, a breve, di non avere più la presenza dei cristiani

“Preghiamo per i cristiani che sono perseguitati, spesso con il silenzio vergognoso di tanti”, ha detto Papa Francesco all’angelus del 26 dicembre, festa di Santo Stefano, primo martire cristiano. Tra i cristiani più perseguitati, oggi, ci sono quelli che abitano nella terra dove Gesù è nato, la Terra Santa.

Quando vado a Gerusalemme cerco di incontrare un amico di vecchia data: don Raed Abusalalhia. Don Raed è conosciuto da tanti pellegrini per essere stato diversi anni parroco a Taybeh, l’ultimo villaggio interamente cristiano della Palestina, e per aver avviato una serie di progetti e di iniziative per dare futuro e speranza ai cristiani di Terra Santa tentati, nell’interminabile instabilità politica ed economica, dalle sirene dell’emigrazione. Oggi don Raed è Direttore della Caritas di Gerusalemme – un’istituzione con una settantina di dipendenti che sostiene in Israele, in Palestina e a Gaza progetti di sviluppo nel campo formativo, scolastico e sanitario- ma trova sempre tempo per incontrare amici e pellegrini. Ogni incontro con lui è prezioso perché con rara sapienza e capacità comunicativa offre piste di discernimento e chiavi di lettura di una situazione politica non sempre facile da decifrare, soprattutto per chi proviene da Occidente e frettolosamente, senza grandi conoscenze se non quelle orecchiate di corsa e spacciate per definitive, assume il filtro del pregiudizio partigiano per l’una o l’altra parte.

VIVERE ALL’OMBRA DELLA CROCE

Quando parla della condizione dei cristiani in Terra Santa don Raed richiama il Patriarca emerito Michel Sabbah che amava dire loro: “Se voi siete qui, non è per scelta vostra: è la volontà di Dio che vi vuole a Betlemme, a Gerusalemme, a Gaza, a Ramallah a Taybeh invece che a Washington, a New York, a Madrid, a Parigi o Roma. Se voi accettate di rimanere qui, dovete accettare di vivere all’ombra della croce”. Vivere all’ombra della croce non è facile, ripete ogni volta don Raed. Che cosi continua: “Noi non siamo migliori del Maestro. Se Lui è morto sulla croce, noi dobbiamo vivere sotto la croce, all’ombra della croce. Significa cioè una vita che non è facile ma difficile, una comunità che non è grande ma piccola. Questa è la nostra identità, la nostra vocazione, la nostra missione in Terrasanta. Certo, noi sappiamo che Gesù sul Golgota,sulla croce, è rimasto dalle tre alle sei ore. Noi, sotto la croce, all’ombra della croce, ci siamo da un secolo. E aspettiamo la nostra resurrezione. Non perdiamo la speranza perché vicino al Golgota c’è quella famosa tomba vuota”.

ESSERE CRISTIANI IN IRAQ E IN SIRIA

La chiacchierata con don Raed mi è tornata alla mente quando nei giorni scorsi mi è capitato di trovare sui giornali la notizia che in Iraq, a Bagdad, il patriarca Sako ha aperto la Porta Santa nella cattedrale caldea, parlando di cristiani “tribolati, ma non schiacciati”. Ha ricordato un dramma nella tragedia mediorientale: quello dei cristiani. Soffrono come il resto della popolazione. Ma sono colpiti in modo particolare: da quelli uccisi negli attentati a Bagdad fino ai cristiani assiri utilizzati come scudi umani nella capitale del Califfato, Rakka. Il Medio Oriente, tra breve, sarà senza cristiani. “E’ la fine del cristianesimo?” si chiedeva alcuni mesi fa il New York Times che alla questione ha dedicato un lungo speciale. Lo ha scritto recentemente Andrea Riccardi sulCorriere: “Erano circa il 10% dei siriani e il 3,5% degli iracheni. Nel 1948, gli ebrei furono scacciati dagli Stati arabi, mentre i cristiani restarono fedeli al nazionalismo arabo. Nella loro storia bimillenaria, questi hanno resistito a invasioni e violenze per convertirli: dagli arabi ai mongoli e agli ottomani. Nella notte tra il 6 e il 7 agosto 2014, di fronte a Daesh incalzante in Iraq, ben 120.000 cristiani sono fuggiti dalla piana di Ninive: nessuno si è convertito all’Islam per restare.”

È ANCORA TEMPO DI FARE QUALCOSA?

In Siria, in Iraq e in molte altre parti del Medioriente si sta spegnendo drammaticamente, sotto i colpi della pax americana prima e dell’islamismo fanatico dopo, quel mondo cristiano orientale che ha avuto una funzione originale nell’incontro tra Islam e modernità e nell’orizzonte del cristianesimo. Si prepara dunque in un silenzio assordante uno sconvolgimento nell’ecologia umana del Mediterraneo: la fine di un’antichissima presenza. “È ancora tempo di fare qualcosa?”  si chiedeva Riccardi nell’articolo citato. “Forse solo la pace in Siria potrebbe mutare questo destino”, è la sua risposta.

Forse sì, se ciascuno di noi, se ciascuna delle nostre comunità cristiane che hanno nella loro geografia di salvezza luoghi come Betlemme e Gerusalemme, Taybeh e Nebo, Ur dei Caldei e Damasco, cominciasse a sentire il destino di quei popoli parte integrante del proprio. In fondo, da quelle terre è nata la nostra fede. Popoli e terre che oggi meritano meno silenzio complice e più attenzione solidale.