Mio padre era un arameo errante. Profughi e cambiamento di civiltà

Foto: un bambino nel campo profughi di Nablus

“La casa di Abramo era aperta ad ogni creatura umana, alla gente di passaggio e ai rimpatrianti, e ogni giorno arrivava qualcuno per mangiare e bere alla sua tavola. A chi aveva fame egli dava del pane, e l’ospite mangiava e beveva e si saziava. Chi arriva nudo in casa sua era da lui rivestito e lui imparava a riconoscere Dio, il creatore di tutte le cose”. Così racconta uno splendido Midrash a proposito di Abramo, paradigma della figura ospitale. Riecheggia il capitolo 18 del libro della Genesi là dove il Patriarca, nell’ora più calda del giorno, accoglie i tre uomini che si presentano alla sua tenda.

ABRAMO VEGLIA PER ESSERE PRONTO AD ACCOGLIERE

Tenere la porta della propria casa aperta è dunque il primo tratto dell’io ospitale. Un testo rabbinico si chiede come mai, nell’ora più calda del giorno, Abramo sedesse all’ingresso della tenda e non si trovasse, piuttosto, al suo interno per ripararsi dal caldo. E la risposta è: per stare allerta e vigilare perché, scorgendo qualcuno da lontano, potesse subito invitarlo nella sua tenda, offrendogli riparo al più presto.  Splendida parabola di chi vegliando si risveglia dal torpore dell’io che riposa su di sé e vigila sull’altro. Di chi sa che non esiste l’io senza il tu, che non si dà identità (nemmeno quella cristiana!) senza relazione. Non a caso, un altro testo rabbinico si interroga sul numero delle entrate o porte della tenda di Abramo e risponde che queste erano quattro, corrispondenti ai quattro punti cardinali perché i passanti potessero entrarvi subito e facilmente da qualsiasi parte provenissero.

CASA E CHIAVI. PER APRIRE

Ospitale – ricorda acutamente Carmine Di Sante – “è il soggetto la cui ‘casa’ non è più il luogo dove egli abita nel chiuso del rapporto da sé a sé (non senza significato i francesi chiamano la casa ‘chez soi’) ma lo spazio che, aperto dall’altro, si apre all’altro e nelle cui porte le chiavi non sono più strumenti che chiudono, come vuole l’etimo del termine italiano che rimanda a claudere e che riproduce il movimento della mano che si stringe e si rinserra, ma strumenti che aprono, come vuole l’etimo del termine ebraico, patah, che vuol dire disserrare e perciò aprire.” Torna alla mente don Milani e il suo I Care, mi sta a cuore, mi interessa (“l’esatto contrario del me ne frego fascista”, spiegavano i suoi ragazzi di Barbiana), appeso alla parete della stanza dove faceva scuola.

“NON È POSSIBILE ACCOGLIERE TUTTI”

Mentre scrivo tutto questo, immagino le obiezioni di molti, anche fra cristiani. “Non è possibile accogliere tutti! Occorre mettere un limite!”. E’ indubbio che le migrazioni rischiano di trasformare l’Italia in una pentola a pressione. Lo ha scritto recentemente Lucio Caracciolo: “Per il convergere di tre fattori: i crescenti flussi da sud e da est; i severi controlli anti-migrante lungo le frontiere alpine; soprattutto, la deriva xenofoba che la retorica dell’’invasione’ minaccia di suscitare nel nostro paese, con gravi conseguenze per la pace sociale e l’ordine pubblico. Gli oltre 14 mila sbarchi in tre giorni hanno fatto saltare la catena degli hot spot e indotto il ministero dell’Interno a emanare una circolare di emergenza per il trasferimento provvisorio di 70 migranti in 80 province (a proposito: non volevamo abolirle?).

Nella frenesia da campagna elettorale la Lega e altre destre hanno evocato lo spettro del “genocidio”, ovvero la “sostituzione etnica” degli italiani che si presumono “puri” con gli “impuri” lanciati da qualche misteriosa entità (immaginiamo pluto-giudaico- massonica) alla conquista dello Stivale. Restiamo ai fatti. Dall’inizio dell’anno a oggi sono sbarcate sulle nostre coste 47.740 persone, il 4,06% in più rispetto allo stesso periodo del 2015. Quasi tutte provenienti dall’Africa subsahariana e dall’Eritrea via porti della Tripolitania ormai somalizzata e, in qualche caso, dell’Egitto. L’effetto “invasione” non è dunque dato dal totale degli sbarchi ma dalla loro concentrazione nel tempo e nello spazio. Oltre che dalla smisurata eco mediatica. Questo non garantisce affatto il futuro: sappiamo che centinaia di migliaia di migranti economici e ambientali oltre che di richiedenti asilo attendono di raggiungere l Unione Europea. In particolare la Germania e i paesi nordici, dove le opportunità di impiego e le garanzie di assistenza sono nettamente superiori a quanto offra l’Italia. Ed è anche probabile che la chiusura della rotta balcanica – ammesso che l’accordo Merkel – Erdogan non salti – finisca per deviare i migranti in fuga dalle guerre mediorientali verso il Canale di Sicilia.

CHE FARE DUNQUE?

La prima cosa, urgente, da fare è di non farsi incantare dalle sirene dei cacciatori di streghe. Dai tanti ministri della paura circolanti. Guardiamo negli occhi la realtà, magari allontanandocene un po’ per avere una visione più aperta. Nessuno nega che in alcuni casi l’accoglienza sia difficile, così come la convivenza, ma la demonizzazione, l’esclusione, la chiusura non sono le soluzioni, non sono soluzioni, solo un bieco gioco sulla pelle di chi già soffre. E in ogni caso non servono nè la demagogia nè la strumentalizzazione. Neanche l’ignoranza. La maggioranza di chi dice che gli immigrati sono troppi non sa infatti dire esattamente quanti siano, tende ad enfatizzare la componente irregolare e la voce dei costi sul welfare rispetto alla ricchezza economica prodotta.

La seconda cosa la suggerisce Caracciolo. Che parte da una constatazione amara: l’Europa non ci salverà. L’Italia deve dunque attrezzarsi ad affrontare la questione migratoria — non l’emergenza di un giorno: la normalità dei prossimi decenni — con i propri mezzi. Ciò significa investire in infrastrutture per l’accoglienza e per l’integrazione, a meno di non accettare che il nostro Paese  si sfiguri in arcipelago di ghetti. Con annessi lager. La Germania, scartando per una volta dal dogma antikeynesiano, ha appena varato misure analoghe per decine di miliardi, sulla cui ripartizione già s’azzannano governo centrale e Laender. È urgente che l’Italia si doti di una sua legge per l’integrazione e che mobiliti le risorse economiche, culturali e politiche necessarie. Perché qui si gioca il futuro della nostra comunità. Se falliremo, non avremo prove d’appello.