All’ora dei compiti la risposta è sempre no: ma sono l’ultimo argine alle giornate passate sul divano

“Francesco dai, iniziamo i compiti: vieni”. Silenzio. “Franci, è l’ora dei compiti, dai”. “Finisco questo livello alla Play Station e arrivo”. “No, Francesco stai giocando da un’ora e mezza, adesso studiamo poi se finiamo in fretta e bene torni a giocare”. “Ok, va bene”. E Francesco con occhi bassi e ciondolante si dirige verso il tavolo dove lo attendo per aiutarlo a studiare. Io, ventisette anni, lui tredici frequenta la terza media. Da tre anni conviviamo in lunghi pomeriggi di studio, praticamente sono diventato il suo fratello maggiore e lui la fonte per rimettermi in gioco e darmi entusiasmo oltre che una buona ‘scusa’ per ripassare un po’ di concetti che col tempo appassiscono. Da quando quest’estate è scoppiata la polemica sull’eccessiva quantità di compiti estivi assegnati dagli insegnanti, vivo i pomeriggi con lui continuando a pensare a questa protesta tutta figlia dei giorni nostri e dei genitori di oggi e mi pare di aver vissuto in un mondo scolastico diverso da quello raccontato da chi protesta e che pure il mio “fratellino” Francesco stia crescendo in una scuola diversa dalle altre. Perché? Perché non è vero che la mole di compiti è insostenibile o, forse, è solo questione di percezione, organizzazione e accettazione di un ruolo che, adesso, obbliga Francesco ad essere studente e a rispettare certe disposizioni che arrivano dall’alto, dall’insegnante. Ogni pomeriggio è una lotta continua per cercare di fargli tenere la testa sui libri, devo fermarmi ogni poco per rispondere alle sue domande “Ma perché devo studiare?”, “Ma perché ho così tanti compiti?”, “Che noia questa professoressa che ci obbliga a stare tutti i pomeriggi in casa” e via dicendo. Le parole per farlo tornare a studiare le trovo quasi sempre, ogni tanto affidandomi ai soliti luoghi comuni per cui “Studiare ti serve per la tua vita”, “Non devi studiare per i professori, ma per te stesso”, altre volte invece mettendolo un po’ di fronte alla cruda realtà: “E’ vero Franci, è tanta roba da fare, ma il professore ha detto così e tu devi fare così. Facciamo un po’ di fatica, spremiamo un po’ le meningi insieme, diamo il meglio adesso e vedrai che soddisfazione. C’è un pomeriggio intero che ci aspetta poi”. Insomma cerco di fargli capire che quella che sta attraversando lui è una tappa della vita fondamentale, che lo fa crescere, che gli deve far accettare le piccole ingiustizie quotidiane, che un po’ di fatica fa bene, che anche se sacrifica un’ora di Play Station non succede nulla e che, anzi, si accorgerà di essere soddisfatto. Ogni tanto però rimango pure io senza parole e lui puntualmente mi richiama: “Ma non avevi detto che studiare è importante e bla bla bla…”. Rimango senza parole quando vedo professori che non danno compiti per dei mesi e poi improvvisamente piazzano la verifica per la quale bisogna studiare 150 pagine in un colpo solo (è successo davvero); rimango senza parole quando vedo professori che danno una serie interminabile di esercizi tutti uguali, tutti con lo stesso metodo, tutti con lo stesso grado di difficoltà e rimango senza parole quando i professori stessi dicono di non studiare un approfondimento sul libro, che magari è l’unica cosa interessante perché si discosta dalle solite nozioni. Ecco, piuttosto che criticare la quantità di compiti, criticherei il metodo con il quale questi vengono assegnati. Forse è lì che si rompe un po’ il giocattolo, forse è a quel punto che il sistema scuola scricchiola e che lo studente va in difficoltà e con lui chi lo aiuta e pure le famiglie. Basta che i professori escano un po’ dal seminato di pagine intere di libri scritte fitte fitte che Francesco, lo studente, si illumina e io, assistente, riesco a tenerlo meno a bada. Uscire dal seminato significa proporre approfondimenti personali, fornire schede, testi, sottoporre filmati e documentari, far leggere giornali, sfogliare riviste e navigare consapevolmente sul web. Quando ciò accade la fatica di studiare svanisce. In tutto questo però c’è anche un po’ di autocritica: perché non trovare vie diverse per studiare anche quando le disposizioni dell’insegnante sono vecchio stampo e quando ci sono 150 pagine da studiare? Ad esempio: essere i primi a far leggere i giornali ai figli, ad esempio invitandoli a seguire la lezione con ricchi appunti, ad esempio facendogli capire che non bisogna ripetere ogni rigo del libro, ma che si può costruire un discorso personale, insomma svolgere sì quanto chiesto dai professori, ma mettendoci un po’ di creatività personale, anche saltando qua e là qualche esercizio se ce ne sono 120 sul diario. E’ una tappa cruciale della vita e per questo forse si potrebbe affrontarla allenando il metodo di studio piuttosto che eseguire come macchinette e basta. Ne va della salute di chi assiste gli studenti e ne va della formazione degli studenti stessi. Ma non togliamo ai ragazzi anche i compiti, finirebbero non seduti ma completamente sdraiati sul divano davanti alla Play e noi adulti, sfruttiamo l’occasione per ripassare e farci trovare pronti sul posto di lavoro o a tavola con gli amici, con un pizzico di cultura in più.