L’Italia è in crisi. E i cattolici? Tacciono

Da qualche settimana si è avviato in rete e sui giornali un dibattito interessante sulla qualità della presenza dei cattolici nel nostro Paese. Quasi tutti i contributi sottolineano che lo stato di salute del cattolicesimo italiano non è molto migliore di quello della comunità nazionale. La cui situazione è davvero molto difficile, sotto ogni profilo e in una misura che non ha eguali in tempi recenti. Dunque, la qualità della presenza dei cattolici è quanto meno afona e silente. O grilli parlanti di valori retorici e privi di contenuti o acquiescenti e acritici di fronte ad un modello che continua a produrre una cultura dello scarto. In entrambi i casi, sterili e inefficaci.

Anche in terra bergamasca

L’analisi merita qualche ulteriore approfondimento e elemento di discussione. Soprattutto per quanto riguarda le omissioni o, come qualcuno li definisce, “gli assordanti silenzi” che hanno accompagnato il cambiamento antropologico in atto dentro le nostre comunità. Credo sia illusorio pensare che Bergamo rappresenti un’isola felice all’interno di un contesto, quello italiano, segnato, negli ultimi vent’anni, da processi mirati di disgregazione delle ragioni di coesione del tessuto sociale e dell’indebolimento delle reti comunitarie. Così come è ingenuo credere che lo sgretolarsi della cultura dei diritti, l’accettazione supina e progressiva, nel silenzio quasi generale, della riduzione della persona a consumatore, del primato del mercato e del conseguente darwinismo sociale, non abbiano lasciato tracce nella pur generosa comunità bergamasca.
Un giorno o l’altro, in modo onesto e rigoroso, occorrerà chiedersi le ragioni per le quali questa nostra terra ha dato forza e sviluppo a movimenti che, oltre ad esprimere una rappresentanza a mondi significativi e ad intercettare domande e bisogni a lungo inevasi dalla politica, hanno scelto il linguaggio, a volte violento e razzista, dell’esclusione e si siano nutriti con voluttà della cultura del sospetto e dell’intolleranza. Bisognerà chiedersi le ragioni per le quali la soglia dell’indignazione nei confronti di parole e slogan che negano dignità alle persone viene sempre più abbassata. Certo, lo sappiamo bene: la comunità bergamasca non è solo questo. Ma è anche questo.

Dove sta la differenza cristiana?

Da credente, impegnato da anni nell’associazionismo e testimone in presa diretta del “cuore” dei miei concittadini, mi sono spesso interrogato, con molti amici che condividono passioni e progetti, sul senso di ciò che sta avvenendo sotto i nostri occhi. E sulle responsabilità che, in tutto questo, abbiamo come cristiani. Lo sappiamo: noi non siamo “altro” dalla società in cui viviamo. Eppure c’è una “differenza” che bisogna laicamente marcare. Il cammino della nostra Chiesa bergamasca negli ultimi decenni ci ha invitato ad una svolta antropologica della pastorale che suppone un giudizio della nostra epoca e un riapprendimento del linguaggio cristiano a partire da una rinnovata concezione della parola di Dio. Per questo è necessario un continuo discernimento che ci obbliga, a dirla con Bonhoeffer, a leggere insieme la Bibbia e il giornale, o, con Paolo Giuntella, il Concilio e la Costituzione. Per questo è importante far crescere, e non zittire, un ethos ecclesiale in grado di abilitare ad un confronto, vivace e dialettico, all’interno delle nostre comunità perché troppo spesso si prende atto della diversità senza che si dia luogo ad un dialogo che aiuti a maturare conclusioni condivise; a coniugare sempre la carità con la giustizia, ad avere cura dei poveri e, insieme, chiedersi le ragioni per le quali, nel terzo millennio, ci sono ancora, e sempre più, esclusi ed emarginati; a dare spazio alla formazione di laici competenti e preparati a gestire le sorti delle nostre comunità, alla ricerca di quel bene comune più grande perfino del bene particolare della Chiesa, a zittire quanti sostengono una cultura “anti-politica” che fertilizza il campo dell’assenteismo e del disinteresse e recinta ferocemente il perimetro degli interessi personali o di gruppo.

Quale Vangelo leggiamo

Nei prossimi mesi faremo memoria di don Lorenzo Milani, nel cinquantesimo della morte avvenuta a Firenze il 26 giugno 1967. Don Lorenzo terminava cosi “Esperienze Pastorali”, il testo dove rileggeva l’avventura sacerdotale a a San Donato di Calenzano, la sua prima destinazione:

Per un prete, quale tragedia più grossa di questa potrà mai venire? Esser liberi, avere in mano sacramenti, Camera, Senato, stampa, radio, campanili, pulpiti, scuola e con tutta questa dovizia di mezzi divini e umani raccogliere il bel frutto di essere derisi dai poveri, odiati dai più deboli, amati dai più forti. Aver la chiesa vuota. Vedersela vuotare ogni giorno di più. Saper che presto sarà finita per la fede dei poveri. Non ti vien fatto di domandarti se la persecuzione potrà esser peggio di tutto questo?

Era la fine degli anni Cinquanta, nei giorni dell’onnipotenza, quando l’Italia sembrava la nazione cattolica per eccellenza, e invece la crisi era dietro l’angolo. E oggi la sfida per la Chiesa – anche per la nostra straordinaria e generosa Chiesa bergamasca – resta sempre la stessa, da due millenni: conservare il nucleo della fede, far parlare Dio nel cuore e nella vita degli uomini e delle donne delle nostre comunità. Se questo accade veramente, avremo una terra più vicina al sogno di Dio. Certamente più solidale, accogliente e inclusiva di quanto non lo sia oggi. Se non accade, un giorno ci verrà chiesto dove eravamo, che Vangelo leggevamo e di quale Dio davamo testimonianza.