La vetta è il confine tra il finito e l’immenso: salire chiede coraggio. Una sfida con se stessi che riempie l’anima e gli occhi

“Una cima raggiunta è il bordo di confine tra il finito e l’immenso”. La frase di Erri De Luca riesce ad inchiodare un concetto (in questo caso quello circa il significato di una cima di montagna) usando poche parole ma estremamente chiare, come del resto è qualità innata dei grandi autori.

I “chiodi” a cui affigge il suo pensiero sulla montagna sono tre: confine, finito, immenso. Non credo esista un confine più netto tra finito e immenso e non credo esista una definizione più giusta di montagna di quella di De Luca. Il confine tra qualcosa che l’essere umano può toccare, esplorare, vivere, domare e qualcosa che l’uomo può solo immaginare, sognare, lambire, avvicinare. La montagna è proprio questo: sognare di avvicinarsi a qualcosa di altissimo, sapendo perfettamente di non poterlo raggiungere, ma provandoci lo stesso perché più vicini si arriva e più si può provare ad immaginare cosa ci sia sopra le proprie teste, oltre quella distesa azzurra che è il cielo.
Una sfida, con se stessi prima di tutto e poi col sovrannaturale che, da sempre, è ciò che ci affascina e ci interroga. La sfida è, appunto, prima di tutto con se stessi perché il raggiungimento di una vetta implica fatica, sudore, sacrificio, coraggio. Che la si compia a piedi oppure in bicicletta, la vetta la si raggiunge inevitabilmente dopo aver compiuto un percorso che tende a salire, spesso anche con pendenze severe e nascondendo ostacoli e insidie molto pericolose. E allora interviene sempre l’orgoglio che impone però di passare attraverso la conoscenza del proprio fisico, ma anche o forse soprattutto, del proprio spirito. È a questo punto che subentra anche l’altra sfida, quella col sovrannaturale. La montagna non l’ha creata l’uomo ma qualcosa di superiore, tutto ciò che anima e abita la montagna è qualcosa di “inumano” e questo affascina, alza l’asticella delle ambizioni che sono il motore emotivo degli sportivi. E poi in ultimo la sfida al mistero di quello che c’è sopra, che c’è oltre. Se il mare, l’altra grande “forza” che abita la Terra, aiuta ad amplificare l’animo e il mondo terreno per conoscerlo in lungo e in largo, la montagna innalza lo spirito elevandolo ad una dimensione superiore che tende proprio all’infinito.

L’immagine della salita e della montagna è usata spessissimo come metafora di fatica, di difficoltà e di vicinanza a Dio o a qualcosa di spirituale. Non potrebbe essere altrimenti visto che nelle sacre scritture, tanto in quelle Cristiane quanto in quelle Musulmane, le rispettive Divinità quando devono chiamare a sé l’uomo per donargli insegnamenti preziosi o metterlo di fronte a prove cruciali lo chiama sulla montagna. E il concetto regge ancora oggi, nonostante tutto. Regge perché è puro e radicato dentro di noi, regge perché la montagna ogni volta che la affronti ti regala conferme, sorprese, stati d’animo differenti. Le Dolomiti ad esempio che, dall’alto del loro splendore sembra che si muovano e ti parlino. Anche alla decima volta che le guardi ti sembrano diverse, ti comunicano altro rispetto alla volta precedente, perché sono vive. La montagna è in grado di resettare tutto ciò che possiedi al momento in cui ti presenti alle sue pendici e ti rigenera una volta in cima. Non prima di averti fatto passare dalla centrifuga di emozioni e sensazioni in cui vieni gettato durante la scalata. La frase è ricorrente, tutte le volte che si sale ad un certo punto ci si dice: ma chi me l’ha fatto fare? E tutte le volte la montagna ti risponde. “Te lo fa fare questo senso di benessere incommensurabile che scorre nelle tue vene quando mi hai conquistato”. E allora la volta successiva ci ricaschi e ti trovi faccia a faccia con lei.

Ho sempre pensato, perché lo sentivo dentro, che la montagna riempie, l’animo e gli occhi. La sensazione è quella che si prova dopo un’abbuffata golosa che ti fa sentire sazio, felice e anche un po’ agitato, in tumulto. Ci si sente così forse anche per un fatto scientifico, biologico che certifica – per chi è meno incline a credere a qualcosa di superiore a noi – la montagna come luogo del benessere. Lassù il nostro corpo inizia a produrre globuli rossi, quelli che trasportano l’ossigeno, che alimentano il nostro corpo e il nostro cervello. Insieme a questi ci sono le endorfine, rilasciate grazie alla soddisfazione che dà il conquistare una vetta. Un cocktail esplosivo, un elisir di euforia, benessere e lunga vita.

La montagna inoltre rende tutti uguali, perché la fatica rende tutti uguali, perché ricchi e poveri comprendono che la montagna è più grande e più ricca di chiunque altro. E allora la bellezza della montagna risiede anche nella capacità che ha di far socializzare le persone e metterle tutte su un unico piano. Non per niente in quota, che si sia a piedi o in bicicletta, ci si saluta sempre, spesso con un famigliare “ciao”. La montagna non è solitudine, ma compagnia. La montagna è riflessione, la montagna obbliga ad essere umili e a rispettarla perché sa essere severa, punitiva, qualche volta anche in modo mortale. Simone Moro, il celebre alpinista bergamasco, dice sempre che il grande alpinista è quello che comprende le condizioni di alto pericolo e sa rinunciare alla conquista di una vetta anche se mancano solo pochi metri a raggiungerla. Gli alpinisti sanno che per dire di aver conquistato una vetta bisogna arrivare in cima, ma anche tornare indietro alla base. Resta la lezione di vita più efficace e genuina perché i suoi insegnamenti arrivano dalla Natura che non conosce artifici, corruzioni o scorciatoie ma solo i sani principi che qualcuno, 4,5 miliardi di anni fa, ha deciso di stabilire, anche per l’essere umano.

Le foto sono di Federico Biffignandi