La globalizzazione, i partiti, la politica nuova che non c’è

Maurizio Martina, segretario reggente del PD

Lega, M5S, Forza Italia

Il quadrilatero che descrive il sistema partitico italiano non assomiglia certo a quello costruito tra Lombardia e Veneto dall’Impero austriaco dal 1815 al 1866. Solo la fortezza della Lega Nord resiste all’usura del tempo. Posta la prima pietra a Bergamo davanti ad un notaio il 22 novembre 1989 e battezzata Movimento Lega Nord il 4 dicembre dello stesso anno, ha subito ristrutturazioni e metamorfosi, ma si è allargata e ha rafforzato gli spalti. Lo stesso non si può dire delle altre tre. Non del M5S, nonostante le apparenze: il suo elettorato e il suo gruppo dirigente sono stati tenuti insieme, fino ad ora, dall’orizzonte metapolitico del rinnovamento etico radicale della società e dai fumi inebrianti della democrazia diretta. Ricaduti all’interno della politica terrestre, si sono scoperti divisi dal vertice alla base da una linea di faglia non occasionale. Quanto a Forza Italia, è sempre appesa alle capacità manovriere e al fiuto “commerciale” dell’anziano leader; ma la corda del consenso elettorale si sta assottigliando.

Il PD e i suoi tormenti

Quanto al PD, è in convulsione da due mesi, dopo il pesantissimo ridimensionamento. La vicenda ancora non conclusa della formazione del governo gli ha impedito, per un verso, di definire univocamente le cause della sconfitta – anche se le analisi ormai sovrabbondano – per l’altro ha evidenziato e approfondito le linee di frattura tra le due componenti fondatrici: il PCI e la Sinistra democristiana. Il PCI-PDS-DS ha portato in eredità una divisione storica, mai risolta, tra una maggioranza conservatrice di matrice berlingueriana, una minoranza socialdemocratica, una piccola frazione liberal. Il passaggio dalla cultura della “funzione nazionale della classe operaia” – che aveva tenuto insieme tutto il puzzle – alla cultura radicale di massa dei diritti, tra i quali, si intende, anche il diritto al lavoro (ma, con ciò la suddetta funzione nazionale veniva definitivamente archiviata), ha privato la sinistra del suo storico baricentro sociale e culturale. Non lo ha più ritrovato, per la semplice ragione che si è dissolto. Il tormentato tentativo di assestarsi su una cultura politica liberale ha scontato difficoltà geopolitiche, prima fra tutte il fallimento della “terza via” clintoniana e blairiana, alla quale persino un vetero-togliattiano come D’Alema (chi non ricorda la piattaforma “per una rivoluzione liberale” con cui presentò la sua candidatura a segretario del PCI-PDS nel 1994?) aveva tentato di agganciare il carro. Ma, soprattutto, ha dovuto fare i conti con le resistenze di tutto il ceto intellettuale accademico e giornalistico nazionale, le cui fortune professionali erano/sono legate al vecchio blocco socio-culturale. Per una singolare nemesi, del distacco dalla società, di cui costoro accusano aspramente l’attuale PD, loro sono i primi responsabili. Quanto alla Sinistra democristiana ha finalmente trovato nell’alleanza con i resti consistenti della vecchia sinistra un terreno favorevole al proprio “welfarismo ai limiti dell’assistenzialismo” con annesso statalismo onnipervasivo.

La confluenza di queste culture politiche nel PD dal 2008 ha dovuto fare ben presto i conti con la globalizzazione, che si è presentata alle porte nazionali nelle forme della crisi economica e finanziaria e dell’immigrazione massiccia. La globalizzazione ha messo brutalmente in evidenza il tratto fondamentale della storia d’Italia successiva alla grande rottura geopolitica dell’89: la debolezza della funzione di governo del sistema politico-istituzionale. Diversamente da quanto accaduto in tutti gli altri Paesi europei, in Italia la caduta del Muro aveva portato allo sconquasso del sistema politico, a controprova del fatto che il Muro aveva da sempre attraversato il nostro Paese. La caduta aveva liberato le potenzialità liberali di alternanza e aveva favorito la costituzione di due blocchi alternativi.

Non basta cambiare gli uomini

Ma la funzione di governo continuava ad essere debole. Il tentativo di rafforzarla per via politica, cambiando nel giro di vent’anni per ben tre volte i sistemi elettorali, è fallito. La storia del Paese continua a consegnarci inermi alle dinamiche della globalizzazione. Rispetto alla domanda fondamentale di un governo forte in un contesto geopolitico che richiede nuove responsabilità, la cultura politica  del PD pare attingere solo a tratti e in modo disordinato alla coscienza del nuovo livello della domanda politica, quella dell’institution building o, meglio, dell’institution re-building. Lo ha fatto in modo confuso con la proposta del referendum del 4 dicembre 2016, per abbandonare immediatamente la partita subito dopo fino a questi giorni, quando la questione istituzionale/costituzionale è riemersa nella proposta di Matteo Renzi di una breve legislatura o governo costituente. Un antico e profondo politicismo, che proviene direttamente dal fascismo e che ha attraversato le culture politiche della Prima repubblica, ha ridotto le istituzioni e lo Stato a variabile dipendente del Partito unico o del Sistema unico dei partiti. Di questo politicismo sono state praticate due versioni: quella, prevalente, dell’accordo tra partiti, vista come condizione di stabilità e di governabilità e quella, estremistico-radicale, che è emersa dal ’68 in avanti, a ondate irregolari, e che affida il cambiamento delle politiche appunto al solo rinnovamento radicale del personale politico. Insomma: il problema non sarebbero le istituzioni deboli, ma i politici corrotti. Dall’intervista di Scalfari ad Enrico Berlinguer il 28 luglio 1981, al primo leghismo, a Mani pulite, alla Rete, al primo Berlusconi, ai Girotondi, al M5S, alla rottamazione renziana il filo conduttore ideologico è sempre lo stesso: la potenza soteriologica del cambio degli uomini. E’ questo pregiudizio ideologico di lungo corso che spiega anche le recenti oscillazioni e divisioni del PD circa l’atteggiamento da tenere rispetto ad un eventuale governo con il M5S. Tutti coloro che hanno pensato di contribuire al mutamento genetico del Movimento dei Vaffa e di ricondurlo all’ovile del sistema politico tradizionale non solo non hanno fatto i conti con la spregiudicatezza del radicalismo politicistico pentastellato, ma continuano ad alimentare un pensiero debole circa le sfide istituzionali del presente.

Si tratta, ormai, di cambiare la seconda parte della Costituzione, non semplicemente le regole elettorali, che selezionano il personale politico. Se Grillo ha già provveduto con un’intervista-proposta di referendum sull’Euro a spazzare via le illusioni manovriere di una parte del PD, non perciò il PD dimostra di aver acquisito il punto decisivo: che occorre costruire le istituzioni di tutti e per tutti, che reggano le tempeste della società e della politica in un Paese attraversato dalle correnti del mondo. La politica avrebbe un solo modo per affermare concretamente il proprio “primato” e la bellezza dei compromessi e degli accordi: quello di progettare una Seconda repubblica all’altezza del presente. Al di sotto di tale livello, assisteremo ad un assedio reciproco di tutti contro tutti, con il suo linguaggio truce e violento, di cui il M5S è portatore non esclusivo.