Le bici con pedalata assistita sui sentieri di montagna: una metafora dei nostri tempi

Non può mancare nelle miei giornate estive qualche escursione in quota. Una tradizione di famiglia verso i rifugi dell’alta Valle Camonica, sulle tracce di cervi e stambecchi, tra il profumo dei larici e la speranza di avvistare una marmotta.

In un clima di spensieratezza che mantiene il sapore delle gite di quando ero bambino, quest’anno noto con occhio critico il proliferare di un nuovo mezzo di locomozione alquanto singolare: al bando l’uso delle gambe, da ora in poi si useranno solo le biciclette con pedalata assistita.

Le vedo salire e scendere la mulattiera che da Case di Viso conduce al rifugio Bozzi, quota 2500 metri, e tra Canè e il bivacco Valzaroten a 2200. Poi tra Temù e Valbione, da Pezzo ai laghi di Ercavallo, e tra Vezza D’Oglio e il rifugio Occhi, a 2000 metri su per giù.

Mi superano di slancio, sbeffeggiando la mia camminata affaticata – risultato di un allenamento intensivo alla tastiera del pc -, e vanno avanti e indietro su sentieri e mulattiere spinte dal motore elettrico e di tanto in tanto dal contributo minimo dei rilassati muscoli dei loro conducenti.

Un breve inciso, scanso equivoci. Sono sempre stato favorevole all’impiego della tecnologia per il miglioramento della condizione umana, pertanto lungi da me criticare il mezzo in sé o chi ne fa uso per motivi di svago o di necessità. Uso queste biciclette -che occhio e croce sono più performanti di un Liberty della Piaggio- come metafora dei nostri tempi, niente di più.

Dicevamo, vedo sfrecciare in sella a queste biciclette uomini e donne dal fiato corto, bambini sovrappeso, anziani con i muscoli atrofizzati, quarantenni con la pancia da birra, e ragazzini obesi con le guance rosse come il fuoco. Persone che a stento riuscirebbero a pedalare in pianura padana, figurarsi in alta valle.

Raggiungo le mie mete dopo ore intense, con la maglietta madida, la fronte arrossata, la gola arsa. Vorrei togliermi le ginocchia e immergerle nell’acqua fresca. Poso lo zaino, mi siedo sull’erba, faccio due respiri profondi e mi sento pieno di soddisfazione.

La stessa che vedo sui volti dei ciclisti elettrici, ma per che cosa? Per aver raggiunto un rifugio che mai avrebbero sognato di raggiungere con la forza delle sole gambe?

Così mi chiedo: che soddisfazione c’è? Cosa ci fa gioire di un risultato ottenuto senza sforzo? Come possiamo sentirci appagati da un obiettivo raggiunto senza merito, da una traguardo tagliato senza una adeguata preparazione?

Mi viene quindi il dubbio che oggigiorno non vi sia più alcuna relazione tra l’impegno e il risultato.

In montagna si cammina (si corre, si pedala, fate voi), con muscoli, gambe, cervello. Così come nella vita di ogni giorno ci sono forza d’animo, impegno, intelligenza, studio, preparazione. Nessuna scorciatoia è stata finora ammessa, nessun motore elettrico sopperiva alle mancanze: se eri preparato andavi, se non lo eri ti fermavi al primo falsopiano. Se studiavi passavi l’esame, se non studiavi eri rimandato all’appello successivo.

Così, guardando il ciclista elettrico pieno di sé, mi vengono in mente in ordine sparso il qualunquismo dilagante, la tuttologia televisiva, la superficialità social, il populismo governativo, la demagogia opinionistica, e la de-professionalizzazione del lavoro. In tutti questi casi si urla al successo senza aver compiuto sforzi.

Venghino amici, venghino. Qui si diventa dottori per caso, ingegneri per luoghi comuni, ragionieri per fantozziana visione. Si diventa escursionisti a spinta, pedalata assistita, fatica ridotta, impegno parziale. Il traguardo è comunque assicurato.

Accade ogni giorno, ce l’abbiamo di fronte agli occhi: imprenditori di sé stessi, musicisti che mettono dischi, professionisti oggi primari di chirurgia perché si parla di malasanità, domani sismologi perché è stata avvertita una scossa di terremoto e dopodomani ingegneri di pista per criticare il box Ferrari.

E la classe dirigente idem. Abbiamo sottosegretari alla cultura che dichiarano di non leggere un libro da anni, di non avere tempo per il teatro, il cinema o qualsiasi altra attività che con la cultura fa il paio. Geniale, no?

E non trascuriamo i politici che politici non sono. Perché piaccia o meno la politica dovrebbe essere una professione, non l’improvvisato piano B di trentenni che non hanno fatto carriera nel cinema e hanno condiviso un curriculum su un portale online alla giallozafferano. È la differenza base tra il dire e l’essere, l’apparire e il fare. La voglia di faticare per raggiungere gli obiettivi scarseggia, e di conseguenza la professione diviene avvio anziché traguardo. Una scelta a tavolino, senza le dovute premesse.

Respiro l’aria fresca delle montagne, il cielo si annuvola. I ciclisti si preparano a tornare verso valle, io mi fermo ancora qualche minuto a riposare. Le gambe mi dolgono, i piedi bollono. Penso ancora, stupido antiquato che sono, che più il percorso si fa difficile, maggiore sarà la soddisfazione di giungere alla meta. Un po’ come a dire, chi ha voglia continui a faticare, per tutti gli altri c’è l’elettrico. Il punto di partenza e il punto di arrivo, a guardarli sulla mappa, sono esattamente gli stessi.