Dopo l’articolo di settimana scorsa, due amici preti mi hanno scritto per ricordarmi che se pur erano vere le notizie riportate è altrettanta vera la dedizione assoluta e gratuita che non fa notizia di moltissimi sacerdoti. Hanno ragione. Tutti noi conosciamo tanti preti che hanno dedicato e dedicano la loro vita alla gente. Lo fanno ogni giorno con grande generosità ma essendo una cosa “normale” non ci facciamo caso. Fanno più rumore i sacerdoti – che, secondo dati vaticani, vanno dal 4 al 6% nei vari paesi – colpevoli di violenza sessuale contro i minori. Un “delitto” gravissimo in sé, ma reso più odioso perché, scrive Luigi Sandri “fino ad anni recenti, quando i vescovi venivano a sapere che un loro parroco si era macchiato di tale nefandezza, il loro primo pensiero era soprattutto quello di salvare il “buon nome” della Chiesa, di tacitare lo scandalo, di abbandonare al loro destino le vittime e di… spostare a un’altra parrocchia il prete delittuoso. Ora le cose stanno cambiando.”
“Il potere e la gloria”
Le vicende di questi tempi mi hanno riportato alla memoria la trama di un romanzo che avevo letto da giovane. Un libro magnifico, Il potere e la gloria, scritto nel 1940 da Graham Greene, scrittore e drammaturgo inglese. Il protagonista è un prete, a un tempo santo e peccatore. Un sacerdote traditore, ubriacone, vigliacco e meschino, ricercato dalle forze di polizia messicane durante i terribili anni della persecuzione contro i cristiani. Il romanzo nasce proprio dall’esperienza del viaggio che lo scrittore inglese aveva fatto nel Messico da poco fuoriuscito dagli orrori di quella stagione. Pur essendo radicata nella realtà messicana, la storia del romanzo ha il sapore di una “favola eterna” al punto tale che il protagonista non ha nemmeno il nome. Non vi è nulla di particolarmente “edificante” in questo racconto dai toni cupi e crudi, anzi balzano in modo evidente tutte le fragilità e le cadute che i sacerdoti, come gli altri uomini, vivono necessariamente sulla loro difficile via verso la santificazione. La trama è apparentemente semplice e coincide con la storia di questo prete corrotto e vigliacco. Non solo ha tradito la sua vocazione – ha avuto infatti una figlia da una relazione con una donna – ma continuamente manca alla sua missione fuggendo alla persecuzione di quegli anni feroci vivendo praticamente alla macchia e occultando i segni del suo ministero. Tutto il libro, sino al finale a sorpresa in cui il prete vigliacco ritrova il coraggio e vivendo da prete subirà il martirio della fede, è la descrizione di quel “continuamente”.
Basta con il clericalismo
Ho letto con molta attenzione la bellissima e coraggiosa Lettera al popolo di Dio scritta da papa Francesco a riguardo del tema degli abusi pubblicata lo scorso 20 agosto. Bergoglio individua nel tradizionale clericalismo cattolico, inteso come sistema di potere e stile di vita, ancora imperante in tante componenti del cattolicesimo mondiale il peccato maggiore della nostra Chiesa. Il clericalismo nei fatti rende “impossibile immaginare una conversione dell’agire ecclesiale senza la partecipazione attiva di tutte le componenti del Popolo di Dio”. Anzi, di più: “ogni volta che abbiamo cercato di soppiantare, mettere a tacere, ignorare, ridurre a piccole élites il Popolo di Dio abbiamo costruito comunità, programmi, scelte teologiche, spiritualità e strutture senza radici, senza memoria, senza volto, senza corpo, in definitiva senza vita”. Il clericalismo, prosegue la Lettera citando il messaggio papale del 19 marzo 2016 al cardinale Ouellet, Presidente della Pontificia Commissione per l’America Latina, è quell’atteggiamento che “non solo annulla la personalità dei cristiani, ma tende anche a sminuire e a sottovalutare la grazia battesimale che lo Spirito Santo ha posto nel cuore della nostra gente”; fino a generare, col favore tanto degli stessi presbiteri quanto dei laici, una vera e propria scissione nel corpo ecclesiale, che fomenta e aiuta a perpetuare molti dei mali che oggi vengono denunciati: “dire no all’abuso significa dire con forza no a qualsiasi forma di clericalismo”.
Declericalizzare: sarà possibile?
Il problema a questo punto è cosa vuol dire “declericalizzare”. In un bell’articolo apparso su Rocca il teologo Brunetto Salvarani offre alcune piste possibili. Anzitutto, in continuità con il primo gesto di Papa Francesco la sera del 13 marzo 2013, scrive che occorre avviare un cammino di spoliazione. Declericalizzare presuppone una rinuncia all’idea, così diffusa e pervasiva, che il potere sia ricevuto esclusivamente dall’alto, e non sia un servizio – come invece dovrebbe essere – secondo la lezione evangelica, di regola – bensì un privilegio, che prevede l’esenzione da qualsiasi valutazione. Declericalizzare significa cercare ogni giorno di imitare e assumere i sentimenti (Fil 2,5) e lo stile di Cristo, che scelse clamorosamente di svuotare se stesso (2,7).
Qui Salvarani si riferisce, anche terminologicamente, alla visione del teologo Cristoph Theobald quando rilegge appunto il cristianesimo come stile. Perché, egli spiega, quanto Gesù fa e dice nei suoi incontri è un tutt’uno con il suo essere, in lui ci sono assolute unità e trasparenza di pensiero, parola e azione che sono manifestazione del Padre: dal suo stile emerge la provocazione di un cristianesimo che apprende, mentre le patologie e le infedeltà al vangelo che pervadono ogni epoca della storia ecclesiale – e soprattutto la nostra, tempo incerto al tramonto del regime di cristianità – possono essere lette come rottura della corrispondenza tra forma e contenuto.
Quando prevale la forma, si ha un cristianesimo ridotto a estetismo liturgico, appiattito sull’istituzione gerarchica, in cui è assente la sostanza di quell’amore che fa strada a Gesù fino alla croce. Se invece prevale il contenuto, si ha un cristianesimo ridotto a impianto dottrinale e dogmatico, a verità fatte di formule cui credere, prive di un legame vitale con l’esistenza delle persone. Perciò, una Chiesa fedele allo stile di Gesù non dovrebbe presentarsi tanto come istituzione detentrice di un sistema di dogmi da insegnare al mondo, bensì come spazio aperto, in cui i singoli fedeli abbiano la possibilità di trovare il proprio centro ed esercitare la libertà di far emergere la presenza di Dio che già abita la loro esistenza. D’altronde ogni persona – quali siano la sua religione, il suo pensiero e la sua cultura – è portatrice di un’immagine di Dio che attende di rivelarsi come per gli apostoli nella Pentecoste, e ha la possibilità di fare proprio lo stile di Gesù: quindi i cristiani dovrebbero essere in ricerca della manifestazione di Dio propria di ogni religione, cultura e pensiero, invece di assumere atteggiamenti di mera svalutazione e condanna.
Lo sfondo della questione è l’immagine di Chiesa che vogliamo custodire. Inevitabilmente questa ricerca implica anche quella che il monaco Semeraro chiama “una riflessione radicale sull’esercizio dei vari ministeri e, in particolare, di quelli legati al sacramento dell’Ordine”. Sarebbe il caso, anche dalle nostre parti, di cominciare presto.