Non fu un nuovo Concordato, come viene spesso definito, ma l’Accordo tra la Santa Sede e la Repubblica italiana, che apporta modificazioni al Concordato Lateranense, sottoscritto il 18 febbraio 1984 dal presidente del Consiglio Bettino Craxi e dal Segretario di Stato Vaticano, cardinale Agostino Casaroli, ha apportato un “aggiornamento” significativo nelle norme che regolano i rapporti tra le due istituzioni. D’altronde, di storia ne era passata, e non di poco conto, a partire dalla nascita della Repubblica, con la sua Costituzione, e dalla celebrazione del Concilio Vaticano II. Abbiamo chiesto a Giorgio Feliciani, docente incaricato dell’insegnamento “Chiesa e comunità politica” nella Facoltà di Diritto Canonico san Pio X di Venezia, quali sono le principali novità introdotte dall’Accordo. Una materia di cui è profondo conoscitore, avendo fatto parte, per conto della Santa Sede, della commissione paritetica che ha preparato la legislazione vigente in tema di enti e beni ecclesiastici e, successivamente, di varie commissioni miste incaricate di studiare i problemi relativi all’attuazione degli accordi concordatari, sempre per conto della Santa Sede e anche della Conferenza episcopale italiana, che, attualmente, l’ha nominato membro del Comitato per la promozione del sostegno economico alla Chiesa.
Professore, per quali ragioni si è imposta la necessità di apportare significative modifiche al Concordato del 1929?
Le ragioni si trovano chiaramente enunciate nel prologo del nuovo Accordo che le identifica nel processo di trasformazione politica e sociale verificatosi in Italia negli ultimi decenni, e negli sviluppi promossi nella Chiesa dal Vaticano II. Di conseguenza, i nuovi patti si ispirano, per quanto riguarda lo Stato, ai principi della sua Costituzione e, per quanto concerne la Chiesa, agli insegnamenti conciliari, tenendo conto della successiva codificazione del diritto canonico.
Quali sono le più rilevanti innovazioni?
Indubbiamente quelle introdotte dall’art. 1, in quanto costituiscono diretta e immediata conseguenza dei principi ispiratori. Infatti, la Repubblica italiana e la Santa Sede vi riaffermano che “lo Stato e la Chiesa Cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani, impegnandosi al pieno rispetto di tale principio nei loro rapporti”. Una enunciazione – quasi integralmente ripresa dal testo della Costituzione italiana e del tutto conforme alla dottrina proposta dal Concilio – che afferma, contemporaneamente, il principio della laicità dello Stato e quello della libertà della Chiesa, e che trova concrete attuazioni e specificazioni nelle disposizioni che seguono. Per quanto riguarda lo Stato si veda, ad esempio, la presa d’atto del cessato vigore del principio “della religione cattolica come sola religione dello Stato” o anche, su un piano più specifico, la fine dei cosiddetti assegni supplementari di congrua per il sostentamento dei sacerdoti. E per quanto concerne la libertas Ecclesiae, il venire meno di ingerenze dello Stato nelle nomine di vescovi e parroci, nella determinazione dei confini territoriali delle diocesi, nella gestione dei patrimoni ecclesiastici.
Ma in questa prospettiva vi devono essere dei rapporti tra lo Stato e la Chiesa? E quali?
La loro necessità e natura è chiaramente definita dal già ricordato art. 1 dell’Accordo, dove la Repubblica italiana e la Santa Sede si impegnano anche “alla reciproca collaborazione per la promozione dell’uomo e il bene del Paese”. In concreto, questa collaborazione si realizza in molteplici modi. Si veda, ad esempio, l’imponente opera di assistenza agli indigenti da parte della Caritas, a livello nazionale, diocesano e parrocchiale, agevolata dallo Stato mediante l’8 per mille. O anche alla preziosa attività svolta dagli oratori come presidio sociale nei quartieri più disagiati e come efficace strumento di integrazione di ragazzi di altri Paesi e anche di altre confessioni. Un’attività favorita da diverse leggi dello Stato e di una dozzina di Regioni del più diverso colore politico. Per non parlare della collaborazione per la tutela e la valorizzazione del patrimonio storico e artistico.
Capita di sentir dire che il Concordato contrasta con la nostra Costituzione, in quanto attribuisce alla Chiesa cattolica una condizione di privilegio. Lei che cosa ne pensa?
Mi sembra un’affermazione del tutto infondata. Attualmente la Repubblica italiana ha stipulato intese con undici confessioni religiose diverse dalla cattolica, che si ispirano agli stessi principi del concordato e contengono disposizioni del tutto analoghe. Ma posso anche citare un fatto specifico. Come noto, gli accordi concordatari del 1984 hanno introdotto un sistema di finanziamento della Chiesa che si avvale sia della parte dell’8 per mille del gettito dell’Irpef ad essa destinata dai contribuenti, sia delle offerte deducibili pervenute all’Istituto centrale per il sostentamento del clero. Ebbene, tutte le confessioni addivenute a intese con lo Stato hanno adottato le offerte deducibili e, con una sola eccezione, anche l’8 x mille. Si è venuto così a creare una sorta di “diritto comune” alle confessioni dotate di intesa, che riguarda anche altre materie come il riconoscimento degli enti e le attività riconosciute, agli effetti civili, come di natura religiosa o cultuale.
I nuovi accordi hanno delle ricadute sulla vita delle comunità ecclesiali?
Molto più di quanto si pensi. Anche a questo proposito mi riferisco all’esempio specifico del finanziamento, ma avvalendomi della testimonianza dell’episcopato italiano. Nella loro lettera “Sostenere la Chiesa per servire tutti” del 4 ottobre 2008 i vescovi hanno avvertito: il nuovo sistema non è “un puro e semplice meccanismo di raccolta e distribuzione di risorse economiche”. Infatti, “a dare senso” allo stesso “è una precisa idea di Chiesa, radicata nel messaggio evangelico e fedele agli insegnamenti del Concilio Vaticano II: una esperienza di comunione, che riconosce a tutti i battezzati che la compongono una vera uguaglianza nella dignità e chiede loro l’impegno alla corresponsabilità e alla condivisione delle risorse”.
(*) La Vita del popoloAlessandra Cecchin (*)