Madre Alessandra Macajone, una monaca “rallegrata da Dio”: la vita monastica è sempre di moda

“Rallegrata da Dio. Madre Alessandra Macajone monaca agostiniana” (Edizioni Cantagalli 2019, Presentazione di S. E. Card. Angelo De Donatis. pp. 208, 16,00 euro), è un interessante profilo biografico della religiosa agostiniana nata in Sicilia, a Gela nel 1931 e morta presso l’Eremo agostiniano di Lecceto nel 2005, redatto da Paola Bignardi già presidente nazionale dell’Azione Cattolica Italiana (1999-2005), che si occupa di temi educativi. L’autrice è pubblicista, e come membro del Comitato di Indirizzo dell’Istituto Toniolo segue la realizzazione del Progetto Giovani. Esemplare e bella la storia di Madre Alessandra, una donna “rallegrata da Dio”, cresciuta  nell’Azione Cattolica, laureatasi in Filosofia, affascinata dalla figura di Sant’Agostino e per questo entrata a 32 anni nel monastero agostiniano di Cascia negli anni Sessanta del XX Secolo. “Portare tutti a Dio” e “Portare Dio a tutti”, fu questo il cardine del percorso esistenziale e spirituale di questa religiosa straordinaria nella sua semplicità. “Pregare è scomparire, è farsi piccoli nella pace dell’abbandono e dell’amore”. 

Abbiamo intervistato Paola Bignardi che per la stesura del testo ha attinto principalmente ai Diari di Madre Macajone. 

Dottoressa Bignardi, Madre Alessandra Macajone con la sua esperienza, ha dimostrato come la vita monastica non sia superata? 

«Madre Alessandra ha mostrato – più che dimostrato – che la vita monastica non solo non è superata ma costituisce un percorso per realizzare se stessi nella pienezza della propria umanità e nella propria aspirazione alla gioia. Il titolo del libro “Rallegrata da Dio” è un’espressione che M. Alessandra usava per parlare di sé. Lei si riteneva una donna felice, di una felicità non superficiale e banale, ma quella che nasce da una comunione con il Signore che dà senso e orizzonti impensati all’esistenza umana».

Madre Alessandra come univa la severità della vita monastica con un modo di fare pieno di affetto, gentilezza e umanità, considerato che per lei essere monache era un modo di essere donne, non una strada per negare la propria femminilità? 

«La severità della vita monastica è solo il rovescio di una medaglia che dall’altra parte ha ciò che si trova con questa scelta; si realizza ciò che si legge nel Vangelo. Un uomo scopre un tesoro in un campo: vende tutto ciò che ha per comprare un campo così prezioso. Ha venduto tutto, ma ha un tesoro. Così è della vita monastica e di ogni forma di vita cristiana vissuta sul serio: occorre privarsi di alcuni beni passeggeri per garantirsi ben di più. In una pagina di Diario, alla vigilia della sua professione religiosa, Madre Alessandra scriveva che lei non aveva detto dei no, ma aveva detto dei sì: alla vita, alla pienezza. Probabilmente una vita cristiana e una vita religiosa presentata in questo modo avrebbero ben altro interesse per le nuove generazioni, che sono assetate di vita». 

Fondamentale per la vocazione della religiosa agostiniana fu un episodio, “un lampo” avvenuto nel 1944 quando Alessandra aveva 13 anni a Macerata in una chiesa di campagna. Ce ne vuole parlare? 

«Più che trattarsi di un’illuminazione, si è trattato dell’incontro con una testimonianza che ha affascinato Anna Maria e le ha fatto intuire prospettive nuove. Durante una gita in bicicletta, la ragazza ha sentito il desiderio improvviso di fermarsi e di entrare in una chiesetta dedicata alla Madonna. Qui vede una suora in preghiera davanti all’Eucaristia. “Non vi so dire che cosa sia avvenuto, -scrive nel suo Diario- perché non lo so. Io ho sentito proprio in quel momento che Dio mi raggiungeva. Il cuore mi si è come riempito di nostalgia, di dolcezza, di Presenza… non saprei dire. Una certezza assoluta: dovrebbe essere bellissimo stare tutta la vita con Dio! Adesso la formulo così, ma allora, a tredici anni, certamente no. Ma un amore che ti colpisce, ti dice la sua solidità – oggi la leggo così –  e quell’esperienza non si è cancellata più, assolutamente più. Questo dà a Madre Alessandra per sempre la sicurezza che “Dio c’è, ti chiama”».

“L’emorragia delle vocazioni è il frutto avvelenato della cultura del provvisorio, del relativismo e della dittatura del denaro, che allontanano i giovani dalla vocazione, insieme alla diminuzione delle nascite e agli scandali e alla testimonianza tiepida”, ha dichiarato Papa Francesco durante l’intervento di apertura all’Assemblea generale della Cei  nel maggio 2018. Che cosa ne pensa? 

«Certamente tutte le ragioni citate da Papa Francesco sono vere e hanno un loro peso, ma io credo che oggi soprattutto manchino persone che, come la suora in preghiera nella chiesetta di montagna per Anna Maria, facciano intravedere la bellezza di una vita interamente dedicata al Signore; sappiano mostrare la gioia che essa genera nel cuore delle persone. E poi occorrono comunità religiose e monastiche piacevoli da incontrare, perché si incontra in esse quel clima umano, quella attenzione alle persone, quella testimonianza di una vita realizzata di cui oggi i giovani sono in ricerca».

C’è un futuro per la vita monastica, è possibile cioè che una giovane oggi avverta e segua la vocazione di consacrarsi a Dio, piuttosto che partecipare alla stessa realtà carismatica nei gruppi laicali, e  in caso affermativo quali potrebbero essere le prospettive? 

«Monasteri e gruppi carismatici laicali non sono in alternativa. La vocazione non è in primo luogo una scelta ma una risposta alla chiamata di Dio. Come scrive Madeleine Delbrel, una laica molto impegnata a testimoniare il Vangelo nel mondo, “c’è gente che Dio prende e mette da parte. Ma ce n’è altra che egli lascia nella moltitudine, che non <ritira dal mondo>”. È sempre Dio che chiama all’una o all’altra decisione: l’importante è saper discernere la sua voce tra le molte voci del mondo e riconoscere che nella chiamata di Dio vi è il segreto della nostra vita vissuta in pienezza».