VÈSS ÒM E VÈSS PUÈTA….CUM’I CAN. Di Franco Loi. Letta da Fèro.
Conservo gelosamente i ritagli dei quattro articoli del Domenicale del Sole 24 ore, nel gialletto tipico del rinomato appuntamento culturale della domenica che il giornale da sempre propone. Sono articoli dove Franco Loi tra l’agosto e il settembre del 2015 fa due belle operazioni: saluta a modo suo i lettori dopo una collaborazione ultraventennale con il giornale e tiene un compendio, dal titolo “La poesia secondo me”, che restituisce un condensato del suo pensare circa il “fare” poesia, di rara intensità ed energia. Trasposti, i 4 articoli sono una decina di cartelle di A4, un piccolo saggio nel quale, quando ri-capita di navigarci dentro, mi rimanda l’idea di essere su una barca a vela libera di scoprire ed amare le bellezze del Mediterraneo, che come si sa è il mare più intenso del mondo.
Penso: anche Luigi Meneghello che mi ha spiegato il dialetto, spalancandomi la porta della parola in lingua prima, ha collaborato per tanti lustri con il Domenicale del Sole24h…i miei due maestri in gialletto..
I titoli di queste 4 lezioni-racconto firmate da Franco sono rispettivamente “La poesia secondo me”, “I suoni: guida per l’inconscio”, “Usare le parole dell’inconscio”, “Versi per fare vasto il mondo”. Per me, ricordo, avevano rappresentato una bella e grande sorpresa, non tanto o solo nel contenuto che pur era stato oggetto nel tempo di suoi numerosi saggi sulla poesia; mi aveva colpito il modo che in quel suo tempo difficile di vita e con la maculopatia che aveva definitivamente avuto ragione dei suoi occhi, si era trovato per fare l’operazione giornalistica. Gli chiesi, dopo l’uscita del primo articolo e in occasione della gita ferragostana in Valseriana al tradizionale ritrovo della mia famigliona con la festa della poia buida e ’mpienida (gallina bollita e ripiena), come avesse fatto a scrivere questo lavoro visto la cecità che gli impediva di leggere qualsiasi cosa. Mi disse che aveva solo parlato e parlato con in testa un ordine di racconto, e che il resto lo aveva fatto una ragazza… “giovane e brava, molto brava ad ascoltare, chiedendo, scrivendo e registrando…..”, di cui, al momento, non ricordava il nome. Mi sono immaginato qualche volta di incontrarla, questa ragazza, di farle una carezza e di darle un bacio di riconoscenza in fronte.
Li ho re-incontrati gli articoli rovistando nella mia roba di poesia alla ricerca di un abbrivio per questo numero della rubrica. Non resisto all’idea di riversarne qui qualche fiotto; le poesie proposte stanno in questo flusso, perché si sa: da adolescenti si cresce per identificazione. Dice Franco:
Ci sono un’infinità di equivoci intorno a cosa sia la poesia. Una volta, circolava l’idea – anche tra i letterati – che l’andare a capo, fare una riga corta, fosse fare una poesia. Altra idea era quella della rima: parole che, in qualche modo, finiscono con un’assonanza fanno una poesia, oppure si pensava bastasse contare le sillabe, o altri fattori tecnici. Se la poesia fosse questo, sarebbe sufficiente fare una cattedra di poesia: si sfornerebbero poeti allo stesso modo in cui si sfornano ingegneri. Non è così. Anzi, la maggior parte dei poeti non ha frequentato le università e, soprattutto, le facoltà di Lettere. È interessante: pensiamo, ad esempio, a Montale, che era ragioniere, a Quasimodo, che era geometra…..
… La poesia è qualcos’altro. È un movimento che attraversa l’uomo: scrivo movimento perché «emozione» nasce da «moto ». Non sempre i moti attraversano la coscienza, a volte qualcosa avviene dentro noi e lo riceviamo attraverso ì sensi, o il «cuore», la percezione che più strettamente chiamiamo emozione. Un mio amico ha detto una bellissima cosa. In un’intervista gli ho chiesto cosa fosse l’amore e ha risposto «L’amore è un movimento. L’odio è il suo contrario, perché è un ostacolo».
….La poesia è quel moto che nasce dal nostro essere. Il mezzo che usa è la parola….. Si parla tanto delle funzioni della poesia, ma la poesia non ha le funzioni che le si attribuiscono – ideologiche, pratiche, eccetera – la poesia ha una funzione forte e importante: rivelare l’essere, e rivelare il rapporto che l’essere ha con il mondo, con gli altri…
INTRAMÈS. Di M.N. letta dall’autore.
INTRAMÈS
I pensér descobiàcc
i s-ciòpa ligér
sö la èrtes di caèi
e du sbróf
i se ’mpiènta ’n di öcc
ch’i tàs
de spòia marù.
I fa l’apèl
per viga ’l scötöm
e spuncià l’ànima
a la masna crüa
del cél,
ale de bötöm
e ligosséra
da cassa integrassiù.
Pirlingaröla
de esistènse
in baltrèsca öda
e sènsa ö nòm,
öna paròla
sö ’l sfòi
l’è cagada de piviù.
INTERVALLO
I pensieri scompaginati
scoppiano leggeri
sulla riga dei capelli
e due spruzzi
si piantano negli occhi
che tacciono
di scheggia marrone.
Fanno l’appello
per avere il soprannome
e spingere l’anima
alla macina cruda
del cielo,
ali di bitume
e indolenza
da cassa integrazione.
Bilico
di esistenze
in loggia vuota
e senza un nome,
una parola
sul foglio
è cagata di piccione.
Da Resistènse Interlinea edizioni 2016
Io sono arrivato a scrivere poesia che avevo già quarant’anni. Nel ’70-71 ho vissuto un’esperienza del fare poesia molto interessante per me, perché l’ho vissuta in maniera molto profonda e l’ho vissuta lavorando tantissimo, circa 14 ore al giorno. Il lavoro è una delle condizioni necessarie all’imparare a scrivere. È come il falegname con la sega, il contadino con la falce, che non sono andati a scuola, ma hanno acquisito quella naturalezza nell’uso dei loro strumenti attraverso la pratica continua, il lavoro – appunto….
…..Tenere il rapporto fra sé e la parola è un lavoro continuo. Non accontentiamoci di una frase qualsiasi, di frasi convenzionali (e quanto più si è intellettuali, tanto più si usano frasi convenzionali) …. noi usiamo la parola per la pratica della vita e ci pare che, come la usiamo per la pratica, la possiamo usare anche per il fare della poesia. Non è così: la parola pratica della vita esige una convenzione, la poesia esige emozione. Il poeta deve sapere sempre mettere in relazione la propria emozione, il proprio moto, con la parola che usa. E siccome il moto nasce dalla profondità dì noi, deve saper mettere in relazione la propria interiorità con la parola.
L’abitudine a stare attenti alle parole ci libera da molti impedimenti, e anche dalla zavorra delle cose morte che sono intorno a noi e delle vite morte che parlano intorno a noi. La parola usata sciattamente fa sciatta la nostra vita. La fa occasionale. E quindi, il lavoro sulla poesia è un lavoro sacrosanto, importantissimo, un lavoro che ogni uomo dovrebbe fare, perché – senza accorgersene – ogni uomo un poco muore.
Se io sento in un certo modo il mio modo di essere con una cosa o con una persona, allora quel modo mio, particolare, avrà i colori e le parole del tempo, e avrà certo anche delle gabbie culturali e convenzionali che son quelle del mio tempo, ma avrà l’essenza del rapporto che io vivo, e quell’essenza viene fissata per le generazioni future. ……Quando fissiamo un’essenza si ripete un rito che è già stato compiuto: il “fare il sacro”. Fare il sacro è proprio e precisamente questo: rendere eterno ciò che è transeunte, rendere chiaro ciò che è oscuro, rendere evidente ciò che è trascurato, rendere visibile ciò che è invisibile.
…..quando l’uomo esprime la parola, e la esprime nella verità più profonda di sé, lì c’è il Dio che parla, (anche Platone lo dice, nello Ione) in quanto il nostro essere più profondo è in relazione con la divinità. E allora, se il poeta parla in relazione con la divinità, la sua parola è divina, e quindi è Scrittura. Ungaretti, poi, scrive nel ’32 “la poesia è una preghiera anche quando è una bestemmia”. Questo è ancora più difficile da accettare, dal punto di vista dei dottrinari…..
GENERASSIÙ di M.N. letta dall’autore.
GENERASSIÙ
Ta pòge sö ’l vènt
ö ’nsègn
e gré zèrb
de zöèrnech e paròle
e pò descarte
cüriùs
sö i tò dìcc pissègn
i cör morèi
di stòrie.
I nòm di òm.
Ta cönte sö
ö rosare de ciche
a dagla ùcia
al malfà del regói,
de i öcc de géra
sö la ghégna sbéra,
de selvasga soméssa
e d’ö portafòi
co l’ànima büsa
che l’à fàcc
la guèra.
L’è lé de èd
è l’è mia öna cüsa.
L’ischintùla
lingéra
tra ürtighe e rübine,
l’se l’sà,
ol saiòt del dislaùr
e no l’domanda scüsa
’nfina che tèra
la reùlta tèra.
GENERAZIONE
Ti appoggio sul vento
una traccia
e grani acerbi
di ginepro e parole
e poi scartoccio
curioso
sulle tue dita piccole
i cuori lividi
delle storie.
I nomi degli uomini.
Ti racconto
un rosario di biglie
a lusingare
il difficile del raccolto,
di occhi di ghiaia
su muso sfrontato,
di semente selvatica
e di un portafoglio
con l’anima buca
che ha fatto
la guerra.
E’ lì da vedere
e non è un’accusa.
Salta sghimbescia
teppista
tra ortiche e robinie,
si sa,
la cavalletta del feriale
e non chiede scusa
finché terra
rivolta terra.
inedita