Il lodo Giorgetti

Disse Giorgetti…

Argomentò, dopo aver premesso che non parlava a nome di Salvini, Giancarlo Giorgettigià sottosegretario alla presidenza del Consiglio: “…In questo momento parlerei con gli altri partiti, dicendo: scusate, ma sediamoci a un tavolo per cambiare le regole del gioco e per dare un governo decente a questo Paese… Quando avremo riscritto queste regole, preso atto che di fronte abbiamo chi dice ‘siamo qua, perché dobbiamo eleggere il presidente della Repubblica, facciamo una legge elettorale per accontentare tutti, così chiunque vincerà dovrà mettersi d’accordo in quattro o cinque’… Era l’unica cosa che si doveva già fare il 20 agosto. Interesse dell’Italia è che questo governo non vada avanti così, ci si metta d’accordo per cambiare le quattro-cinque cose necessarie, magari anche la legge elettorale (sottolineatura nostra) per dare la possibilità a chi governa di decidere… E’ certo interesse della Lega andare a votare subito, raccogliendo anche il “voto di disgusto” per questo governo, ma… se la struttura costituzionale resta quella che c’è e se si va verso una legge elettorale proporzionale, questo Paese è spacciato”.

Quali reazioni? Per primo Salvini ha ottusamente ridimensionato: “Non è una questione attuale!”. Oggi ai cittadini interessano la riduzione delle tasse e il blocco degli immigrati. Come a dire: torniamo al governo e poi vediamo. Non meno ottusa e riduttiva la reazione del PD: certo, siamo interessati a discutere, innanzitutto, della legge elettorale. E dell’attuale struttura costituzionale? Il PD e, soprattutto, la sua area liberal-riformista, reduci dal referendum del 2016, hanno finto di non sentire. L’importante è eleggere un nuovo Presidente della Repubblica con l’attuale maggioranza. Poi si vedrà… Renzi più genericamente disponibile, ma sottotraccia assai più interessato alla sola legge elettorale.

Quanto ai giornali, si sono messi a scavare dietro le parole, per cogliere le motivazioni nascoste: Giorgetti si è reso conto che l’isolamento, europeo in primo luogo, non paga e pertanto ha buttato l’amo; che più di tanto la Lega non potrà crescere e che quindi “i pieni poteri” sono solo un wishful thinking di Salvini; che la Lega deve fare i conti con invitati al suo tavolo con la Meloni e Berlusconi, piccoli, ma di robusti appetiti; che la Lega rischia di ereditare un lascito disastroso, peggiore di quello che il governo giallo-verde ha graziosamente donato al governo giallo-rosso… Come a dire: non vorremmo trovarci a governare un Paese spacciato. Ci sono poi i commenti rancorosi: adesso si accorge dell’ingovernabilità? Non poteva votare SI nel referendum del 2016?

Si possono fare molti ricami maliziosi o malevoli attorno all’intervento di Giancarlo Giorgetti tenuto nel corso dell’evento organizzato a Milano l’11 novembre, presso la Fondazione Feltrinelli, dall’Huffington Post, ma di sicuro afferma tre evidenze incontrovertibili: che il Paese sta andando al declino; che il declino non è un destino cinico e baro, ma una scelta; che il sistema dei partiti ha la corresponsabilità principale e decisiva del declino e ha, tuttavia, la possibilità di avviare una politica di sviluppo. I casi dell’ILVA e di Venezia vedono a vario titolo coinvolti nella responsabilità l’insieme della classe dirigente, le élites intellettuali, la magistratura, i vertici e le base dell’amministrazione, i sindacati, gli industriali… Ma non v’è dubbio che ai partiti sono stati dati e poteri e la delega per risolvere i problemi e che ne hanno fatto, a turno, pessimo uso.

Questo è quanto dice Giorgetti.

La coscienza costituzionale pelosa dei partiti

Non si tratta, dunque, dell’ennesimo invito ad un accordo tra partiti su un ennesimo nuovo sistema elettorale. La storia dal 1993 in avanti sta lì a dimostrare che il cambio ogni dieci anni del sistema elettorale non ha affatto garantito la governabilità. Serve una nuova struttura costituzionale. Carlo Fusaro, in un articolo per Libertà Eguale, ha invitato a prendere atto della crisi del parlamentarismo in tutta Europa, Francia eccettuata ovviamente. Serve, dunque, una Seconda Repubblica; il nuovo sistema elettorale ne sarà l’inevitabile effetto, non la causa. Il semi-presidenzialismo francese non produce affatto la crisi della democrazia liberale, piuttosto la invera e la difende. A turno, anche in Italia, la destra e la sinistra sono pervenute, negli ultimi decenni, a questa percezione, ma l’hanno subito smarrita, a seconda che si trovassero al governo o all’opposizione.

I partiti soffrono di una coscienza istituzionale e costituzionale pelosa, della quale si sono fatti corifei in questi anni i loro costituzionalisti embedded, sempre pronti a legare l’asino dove chiede la contingenza politica quotidiana e perciò o iperconservatori o disponibili a rovesciare le posizioni in un battibaleno. Viene spesso obbiettato da storici e sociologi che il processo di Institution building rischia di essere giacobino e autoritario, finché non si mettano in movimento autonomamente, ai fini dello sviluppo, dinamiche socio-culturali nella società civile e, in particolare, nell’economia. Con ciò precipitiamo in un circolo vizioso.

In realtà, come scriveva già nl 1990 Douglas C. North, citato da Francesco Silva e Augusto Ninni nel loro libro “Un miracolo non basta”, “il cambiamento istituzionale modella il modo in cui una società evolve nel tempo e dunque è la chiave per interpretare il cambiamento storico. E’ difficilmente controvertibile che le istituzioni influenzino le performance delle economie, ed è incontrovertibile che le diverse performance delle economie nel tempo siano influenzate dal modo in cui le istituzioni stesse evolvono”. Institution building e sviluppo sono circolarmente legati, ma è la politica l’enzima logico e volitivo decisivo, è il motore. Perché non sono i determinismi economici, ma le scelte collettive e politiche a decidere se si scivoli lungo il clinamen o si riprenda a camminare.